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A proposito dell’”Appello per le scienze umane” di Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia. Considerazioni sull’orgoglio e sull’inutilità degli studi umanistici

[L’Huffington Post, 14 febbraio 2014]

L’appello di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia in difesa delle discipline umanistiche uscito su una rivista autorevole come il Mulino (6/2013) ha la singolare capacità di far fare al dibattito sulla crisi culturale in corso un incredibile salto all’indietro di alcuni decenni. L’assunto di fondo è che in questa fase storica stia avvenendo un ripudio dell’umanesimo a favore della scienze dure, a partire dagli insegnamenti scolastici. Gli studi umanistici sarebbero gli unici che “assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita”, mentre le discipline scientifiche sarebbero ovunque le medesime e tenderebbero a esprimersi tutte in una medesima lingua, l’inglese.

Il declino degli studi umanistici si rifletterebbe sulla crisi del “politico” che oggi abbiamo di fronte: ciò in particolare in Italia, perché “l’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica”, dato il ruolo quasi di supplenza esercitato in Italia dalla cultura storica, letteraria e filosofica, rispetto alla mancata unità politica. I tre intellettuali tracciano un breve profilo storico-ideologico su questa linea, tutta desanctisiana, che mette in fila Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni (e Cattaneo) e concludono che, se il politico è la chiave interpretativa della cultura italiana, la soluzione sta nel recuperarlo e nel rimettere il ruolo e le ragioni della politica al di sopra di quelle dell’economia, che negli ultimi anni è stata prevaricante.

Ora, all’idea che la linea portante della storia letteraria italiana sia quella delineata nell’Appello, temo non creda ormai nessuno tra gli italianisti delle ultime due generazioni e anzi fa una certa impressione leggerla declinata così assertivamente, dopo decenni di studi sulla società letteraria d’antico regime, i quali hanno mostrato che la letteratura italiana è stata, per secoli, molto altro (e non era il 1982 quando Asor Rosa prendeva le distanze dal “diagramma De Sanctis”?!); ma soprattutto, per quanto si possa essere stati educati al concetto gramsciano di “grande politica” – e io lo sono, ve l’assicuro – si fatica davvero parecchio a condividere una simile fiducia nella possibilità che l’arte politica torni a svolgere un ruolo dominante e sia capace di per sé di risolvere la crisi in corso, vista la complessità del mondo in cui viviamo e la molteplicità delle forze che interagiscono.

La debolezza maggiore nell’analisi svolta dagli autori dell’Appello, tuttavia, mi pare stia nel fatto che sembrano attribuire alla prevalenza della cultura scientifica l’attuale disprezzo mostrato dalla classe dirigente attuale verso la cultura umanistica, mentre è vero proprio il contrario: la cultura scientifica, per vicende storiche nazionali ben note, è insegnata troppo poco nella nostra scuola e concetti poco più che elementari sono pressoché ignoti alla maggioranza delle persone colte (non siamo forse il Paese in cui ogni dieci anni sale alla ribalta una nuova cura miracolosa contro il cancro e l’opinione pubblica, gli organi di comunicazione e la classe politica se la bevono come acqua fresca?).

Ed è vero soprattutto che la stessa cultura scientifica è vittima, al pari di quella umanistica, del restringimento dei finanziamenti alla ricerca di base, quella non finalizzata direttamente all’impiego pratico o all’ottenimento di risultati prefissati. Sono ormai numerosi gli scienziati che denunciano, sia a livello nazionale sia livello europeo, la pericolosa inclinazione della ricerca verso l’immediata ricaduta tecnologica, obiettivo centrale, per esempio, nel programma di finanziamento Horizon 2020. E i più avveduti sono perfettamente consapevoli della complementarità del sapere umanistico e di quello scientifico. Lucio Russo, per esempio, che ha studiato a fondo questi problemi, in un’intervista rilasciata all’Avvenire il 26 maggio 2010, pone in maniera molto corretta il problema della scomparsa dei classici dalla scuola.

L’aver espunto dall’insegnamento le radici storico-filosofiche della scienza e le basi tecnico-scientifiche delle civiltà del passato che ci hanno dato immense opere d’arte ha contribuito a diffondere un dualismo soltanto dannoso. Il paradigma delle due culture, umanistica e scientifica, formulato da Charles P. Snow negli anni Cinquanta, ammesso che lo sia stato, non è più adeguato alla rappresentazione del presente (né più fruttuosa sembra essere la diversificazione in Tre culture di Jerome Kagan). Si discute oggi in termini di società della conoscenza, un concetto basato sull’idea – le cui radici vengono dall’America rooseveltiana, dal Manifesto per la rinascita di una nazione di Vannevar Bush – che il progredire della conoscenza scientifica, nel senso più ampio, è condizione vieppiù indispensabile nella produzione dei beni economici.

Da questo modello, in cui la ricerca di base riveste un ruolo fondamentale, la ricerca in campo umanistico non è affatto esclusa, anzi è elemento indispensabile nel salto qualitativo che può fare la nostra società. Le discipline umanistiche sono viste in interazione con quelle scientifiche nella creative economy, un paradigma di sviluppo che fonde economia, cultura e tecnologia (F. Coniglione-Mirrors Research Group, Scienza e società nell’Europa della conoscenza. Nuovi saperi, epistemologia e politica della scienza per il terzo millennio, Bonanno 2010). Non si tratta di negare gli specialismi o di inseguire fantasiose interdisciplinarità, bensì di condividere scelte di fondo e collaborare a obiettivi comuni. Certo, il ruolo e la rilevanza che gli studi storico-letterari possono svolgere in questi modelli sociali ed economici è ancora tutto da discutere. Ma a mio modo di vedere, è dentro questo dibattito che bisognerebbe stare.

L’attuale tendenza a ridurre gli spazi riservati alle discipline artistiche e speculative è invece legata alla diffusione di altre precise tesi economiche le quali, poggiando su metodi di marketing e comunicazione, privilegiano le competenze che promettono una ricaduta immediata nel mondo del lavoro e sostengono la trasmissione di conoscenze parcellizzate e competenze tecniche facilmente misurabili (con test, quiz e via dicendo). Martha Nussbaum, in un libretto molto fortunato, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, ha descritto gli effetti di questa politica nelle realtà americana e indiana, ma sappiamo bene che le recenti riforme del nostro insegnamento scolastico sono andate in questa direzione, e che l’idolo della quantificabilità sta guidando le politiche della valutazione universitaria e scientifica.

Ebbene, che risposta dà la cultura umanistica italiana di oggi alla crisi in cui versa e agli attacchi oggettivi ai quali è sottoposta? Davvero non riesce a elaborare niente di più profondo che un appello generico a tornare al primato della politica? Leggendo quello che viene scritto dai sostenitori di certo umanesimo, ho l’impressione che il dibattito non stia evolvendo nella direzione giusta. Vi sono casi in cui l’atteggiamento apologetico è tale da farsi addirittura celebrazione di un potere taumaturgico delle lettere, che credo debba essere rifiutato radicalmente.

Un esempio tratto da un intervento recente uscito sull’Huffington Post: “La cultura umanista è un elemento imprescindibile per formare individui coscienziosi, profondi, rispettosi del prossimo. Con ciò non si vuol certo affermare che le persone incolte siano necessariamente grette; ma è pur vero che una persona arida di spirito difficilmente troverà utile irrigarlo con letture e conoscenze […] un film, un videogioco, la musica pop, un’attività sportiva sono tutti impieghi più che legittimi, e spesso positivi, del proprio tempo […], ma mai potranno indurre quella riflessione interiore, quello sviluppo della propria sensibilità che provengono da un buon libro o da una buona discussione dotta. Sono quest’ultime attività che inducono a cercare dentro di sé quelle verità forse parziali, ma che non si possono trovare altrove”. Daniele Scalea, esperto di geopolitica, ama leggere, e ce ne compiacciamo, e ha persino la fortuna di poter condividere il proprio tempo con persone colte con le quali conduce “buone discussioni dotte”. Purtroppo le sue argomentazioni, che poggiano sulla fede in una virtù salvifica delle lettere, sono precisamente quelle di cui la cultura umanistica, in questo momento storico, non ha bisogno.

Il libro di Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, che è stato a lungo nelle classifiche dei libri più venduti negli ultimi mesi, ha anch’esso questo difetto. Mostrando, con una lunga carrellata di citazioni – bellissime -, che da sempre i letterati hanno dovuto difendersi dall’accusa di non produrre denari e di essere inutili alla società, difende ‘l’inutilità’ del lavoro dell’umanista, ossia la felice irragionevolezza di passare il proprio tempo a occuparsi di cose che non hanno alcuna ricaduta economica immediata nella società in cui si vive, consapevoli che vi è in realtà un’utilità superiore e ben più nobile, in termini generali di sviluppo dello spirito e di progresso dell’umanità.

Rivendicare l’utilità dell’inutile, nei termini in cui lo fa Ordine, va benissimo per affermare la libertà del piacere estetico e la libertà di ricerca, che per dare veri frutti non deve essere costretta all’ottenimento di un risultato utile e immediato (e, per essere rigorosi, su questo specificamente, e non su altro, è incentrato l’affascinante saggio di Abraham Flexner stampato in appendice al volume), ma diventa sbagliato e dannoso se la si fa passare per la specificità del mestiere dell’umanista, perché si rischia di legittimare, nell’opinione generale, l’idea che lavorare nel campo della letteratura, dell’arte o della filosofia sia qualcosa che si fa, in ultima analisi, unicamente per il piacere intellettuale che ne deriva. E significa in buona sostanza rivendicare un’alterità del lavoro umanistico rispetto alla realtà economica del Paese, come a dire: cari signori, noi non produciamo nulla, ma voi dovete mantenerci perché senza di noi non avete un’anima (o una storia, un futuro, o ciò che si preferisce).

In tutta onestà: non ho ricavato alcuna gioia nel leggere per duecento pagine di quanto sia utile l’inutilità delle mie giornate di letterata; amerei piuttosto leggere di come il lavoro quotidiano di chi si occupa di letteratura, a ogni livello e in ogni settore, possa ricoprire un ruolo attivo nella società che cambia. Forse gli italianisti dovrebbero provare a partecipare all’elaborazione di un nuovo modello economico e sociale che, in Italia come altrove, si sta cercando di definire. L’ipotesi su cui si lavora è che quanti operano nel campo della conoscenza, della ricerca e della cultura riescano a fare sistema, in modo da arrivare a mettere al centro di una nuova politica di sviluppo il patrimonio, anche immateriale, e quindi letterario e linguistico (o, per esempio, musicale), della nazione.

Di questo gli italianisti dovrebbero parlare, non indulgere alla separatezza, ancorché estetica. E’ un tema che non possiamo lasciare ai soli economisti della cultura, e che dovrebbe vederci impegnati nell’elaborazione dei contenuti, altrimenti sarà soltanto un altro appuntamento mancato con la storia. E infatti, l’assenza si sente e si paga, anche nelle analisi e nei progetti migliori, come il Libro bianco sulla creatività e Il governo della cultura di Walter Santagata. Sono molte le questioni aperte, da quanto grande debba essere l’impegno del pubblico e dei privati a quali siano le linee strategiche da seguire, che significa individuare su cosa è importante investire e su cosa no. Gli storici dell’arte, mi sembra, ci stanno provando. Si è mossa persino la Corte dei Conti, che ha contestato alle agenzie di rating internazionale di non aver valutato il patrimonio culturale italiano in occasione del declassamento al quale hanno sottoposto il nostro Paese nel 2011: forse anche i letterati possono arrischiarsi a voler far parte del PIL. E forse così si salveranno “gli ultimi filologi, gli ultimi paleografi e gli ultimi studiosi delle lingue del passato” che, molto giustamente, stanno a cuore a Nuccio Ordine.

8 marzo 2014: a Milano le “Culture di genere” sono un Centro di Ricerca Interuniversitario
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