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“Bella ciao” a Piazza Taksim

Cantano Bella ciao

I manifestanti di piazza Taksim cantano Bella ciao, mentre aspettano le cariche della polizia di Erdogan. Quello che è stato un canto di liberazione dell’Europa dal nazifascismo, e ha accompagnato le lotte di tutti coloro che sono scesi in piazza a lottare per i diritti negati, il lavoro, la libertà di esprimersi e di diventare quello che si è, corre ora sulla bocca dei giovani turchi. E corre in italiano, con quelle parole, “bella ciao”, che sono le più perfette al mondo per dare voce al coraggio di chi saluta l’amore e va alla morte (vorrei fosse retorica, ma non lo è: i morti sono già quattro, dall’inizio della protesta). Che i turchi cantino la ballata emiliana commuove, certo, ma induce soprattutto a riflettere.


Primo, sulla globalizzazione, che viene sempre chiamata così, ma spesso è soltanto cultura diffusa, e non viaggia soltanto con la pubblicità. Secondo, sulla vicinanza tra noi e un Paese che agli occhi della maggior parte degli italiani è soltanto un paese musulmano dove ogni tanto scoppia una bomba. Santa Sofia, certo, il Bosforo. Ataturk. Cose che si studiano a scuola. Ma quanto sia veramente europea, la città, e quanto sia diffusa anche la cultura italiana e quanto sia grande la sofferenza di un popolo che, con una costituzione laica e una storia di lotte per la democrazia, sta vedendo ora subdolamente erosa la sua libertà, questo te lo possono dire soltanto i racconti degli amici e non puoi che andare a verificarlo con i tuoi stessi occhi. Non bastano i libri di Pamuk.
Sono stata a Taksim poco più di un mese fa, nei giorni del Primo maggio, e già si sentiva che qualcosa di grosso era nell’aria. Gli amici turchi mi avevano raccomandato di rimanere nella zona turistica di Sultanahmet, quel giorno, perché sapevano che ci sarebbero state violente cariche della polizia.
“Piazza Taksim – mi ricordava Mehmet – è il luogo simbolo della Turchia, dove da sempre accorre ogni cittadino turco che abbia qualche motivo per far sentire al Paese la propria voce. Nel 1977, durante la manifestazione del Primo maggio, dall’hotel di fronte spararono sulla folla, la polizia intervenne, e il bilancio alla fine fu di 37 morti. I responsabili non sono mai stati puniti, ma noi pensiamo che si siano ispirati alla strage di Portella della Ginestra, in Italia. Risultano contatti con gli ambienti italiani. Da quel giorno la manifestazione del Primo maggio in piazza è sempre stata vietata, per motivi di ordine pubblico, fino a pochissimi anni fa. E ora Erdogan, con la scusa di costruirvi un grande centro commerciale, sta tentando di privarci definitivamente di questo luogo di libertà”.

Rivedere oggi Istiklal caddesi, la via dove andavamo a passeggiare la sera – inconfondibile, tutta pavesata di lumini appesi e con il binario unico del tram storico che la percorre longitudinalmente -, invasa dalle persone in fuga dai lacrimogeni, mi dà una stretta allo stomaco.
Istanbul è di una bellezza imbarazzante, piena di stradine in saliscendi in cui tutti vanno contro mano, creando ingorghi fantasiosi di furgoncini, biciclette e automobili. Tutti si urlano sul muso le loro ragioni, ma alla fine la rissa non scoppia mai, e l’ingorgo si scioglie da solo, all’improvviso. Sui tram, nuovi e affollatissimi, si incontrano donne anziane, grosse e affaticate, vestite di scuro e con il foulard annodato sotto il mento. Non sono molto diverse dalle nostre nonne contadine. Tutt’altra impressione fanno le giovani che camminano diritte a testa alta, coperte dalla testa ai piedi con veli color pastello – chi azzurro, chi arancione -, perfettamente stirati e dal taglio sartoriale, a gruppetti di due o tre o accompagnate da un uomo. Da sotto la tunica sporgono stivaletti snelli con tacchi alti all’ultima moda.
“Le donne anziane portano il velo perché è la nostra tradizione, ma le giovani, quelle così alla moda, spesso lo fanno per motivi propagandistici, a sostegno di Erdogan e del suo piano di restaurazione islamica” ci diceva l’amica Evinc, mentre ci accompagnava in un piccolo ristorante di pesce del Mar Nero, dove non servono alcool.
Dopo due giorni di colazioni sulla terrazza sporgente verso il mare di Eminonou, io e Raimondo, l’amico che viaggiava con me, ci siamo accorti che la nostra pensione a Sultanahmet era costruita proprio sul poggio che ricopre i resti del palazzo di Costantino. Siamo andati in perlustrazione e abbiamo individuato, con una certa fatica, l’area recintata delle rovine bizantine, inaccessibile e quasi completamente interrata;

davanti al cancello, serrato, campeggiava una grande scritta in un inglese piuttosto originale: “Apart from the works in progress with respect to the site’s functionas an Archaeological Park and Museum, a Hotel Annex construction is presently underway in the area. The project of the Hotel Annex has been approved by the Istanbul NATURAL ASSET and CULTURAL HERITAGE BOARD”.
Una Soprintendenza che approva la costruzione di un hotel sul sito del Palazzo di Costantino? Io e Raimondo ci guardiamo: ma certo, come il centro commerciale a Gezi Park… Ho fotografato il cartello, per non convincermi, col passar del tempo, di averlo solo immaginato.

Al Gran Bazar un giovane sicuro di sé voleva venderci delle scarpe. Erano Hogan, Tod’s, Prada. Ne ha presa una in mano e ha passato sulla tomaia la fiamma di un accendino, quattro o cinque volte, lentamente: “Vedi – mi ha detto in inglese – se fosse plastica brucerebbe. Invece è vera pelle, pelle di prima qualità, pelle turca, non cinese. Per questo non brucia. Noi dai cinesi non importiamo niente, perché Erdogan ha detto che tutto quello che viene lavorato in Turchia deve essere prodotto o allevato qui”.
“Ma queste Hogan sono false”, gli ho detto.
“Non sono false, sono Hogan turche. Non ti dico che sono come le originali: sono meglio delle originali”.
Mehmet ascolta e mi sorride su Skype, in collegamento da un centro di ricerca di Berlino: “Non sono stupito. Erdogan ha preso valanghe di voti soffiando sul fuoco dell’identità nazionale e religiosa, e promettendo l’autarchia economica. Una cosa già vista, no? Ma, in più, è riuscito in questi anni a tenere in scacco l’opposizione progressista con la minaccia che, se non ci piace la sua democrazia, possiamo sempre augurarci il ritorno della dittatura militare, che circa ogni vent’anni da noi torna sulla scena”.
E’ un bel cervello, Mehmet, arrivato tra i primi del suo anno nella graduatoria nazionale all’esame di matematica richiesto per l’ammissione all’Università turca. Ha ottenuto il suo PhD in Inghilterra. È nel board di importanti riviste scientifiche internazionali. Vive e lavora come scienziato in Italia da dodici anni. Quando era al liceo, ha visto tutti i film di Pasolini e letto gran parte della narrativa italiana del secondo Novecento. Ma Mehmet non può votare, in Italia, neppure alle elezioni comunali nella città dove risiede.
Dopo dieci anni di lavoro in Italia uno straniero può chiedere la cittadinanza. Il tempo è passato, e Mehmet ha inoltrato la sua domanda. Il funzionario, quando l’ha vista, ha esclamato: “Ah, ma lei in quanto dipendente statale avrebbe avuto diritto a chiedere la cittadinanza già dopo cinque anni, non gliel’avevano detto?”. Cinque anni prima Mehmet aveva tentato di farlo, ma era stato respinto, con la motivazione che era troppo presto. Nessuno, fino a quel momento, né alla questura, dove più volte nel corso degli anni era andato a chiedere, e nemmeno alla CGIL, dove si era rivolto per avere un sostegno, sembrava essere informato di questo suo diritto.
Adesso di anni ne sono passati altri due, e Mehmet non ha ancora ricevuto nessuna notizia sulla sua pratica. È riuscito però a sapere, in via informale, che la sua domanda è arrivata dalla sede della prefettura alla sede della questura (350 metri). Nel frattempo, ogni volta che va ai convegni internazionali deve perdere tempo e denaro per richiedere i visti, e pare che a ogni controllo di dogana risulti ancor più sospetto, in quanto turco residente in Italia.
Chi ripagherà Mehmet di non aver potuto esercitare i suoi diritti civili, stabiliti dalla legge, in questi anni? Per carità, l’inefficienza della macchina statale non è affatto razzista: il marito di una cara amica, che è svizzero tedesco, ha dovuto aspettare anch’egli un paio d’anni, prima di ricevere il certificato di cittadinanza, una volta maturato il diritto con il matrimonio. Forse è il caso di ripartire da qui, per i diritti civili, dalla lotta all’inefficienza e all’ottusità, cantando “Bella ciao”.

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