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Per Gorizia le terre lontane

 

Vi sembrano molti 97 anni? Nella vita di una persona sono un bel traguardo, ma non poi così raro. Nella vita di un Paese dovrebbero essere un soffio: il 1916 dovrebbe essere l’altro ieri. Ma per l’Italia no; per l’Italia 97 anni sono un’era geologica. Noi siamo un paese dalla memoria corta: chi si ricorda più, oggi, che tra il 5 e il 17 agosto 1916 si svolse una delle battaglia più atroci e sanguinarie della prima guerra mondiale?
Provate a digitare su Google le parole chiave ‘Gorizia agosto 1916’: non salta fuori una sola commemorazione da parte delle istituzioni, un solo articolo di giornale che ricordi al volenteroso lettore l’ecatombe che ebbe luogo in quei giorni, nei quali morirono più di cinquantamila soldati italiani e più quarantamila soldati austriaci. Del resto, da noi vige il motto “Chi muore tace e chi vive si dà pace”.

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Manifesto letterario della Generazione Goldrake

[«Generazione Goldrake», 7 maggio 2013]

Incipit di romanzo à paraître

facit indignatio versum

Eccoci, siamo noi, siamo gli Actarus e le Venusie trent’anni dopo lo sbarco sulla Terra in seguito alla distruzione del pianeta Fleed per opera del malvagio re Vega. Attenzione: non Mazinga, non Jeeg robot d’acciaio, perché quelle sono imitazioni prive di stile venute dopo – e come diceva Oscar Wilde, nelle cose importanti della vita è lo stile che conta, non la verità -, proprio Goldrake, che è stato il primo (1). E siccome le esperienze dell’infanzia segnano per la vita, Goldrake ci accompagna da allora ogni giorno ricordandoci che il nostro dovere è lottare per l’umanità e qualunque altra occupazione è misera e indegna a confronto. Actarus ci mostrava il valore del sacrificio delle ambizioni personali per servire un ideale più grande di noi: la salvezza del genere umano. Siamo cresciuti cercando di imitare quel modello, abbiamo studiato, abbiamo rinunciato alle intemperanze della gioventù per essere all’altezza del nostro compito.

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Una scuola più difficile per tutti, un’Università professionalizzante

[«ilSole24ore.it», 18 ottobre 2011]

L’intervento di Claudio Giunta a proposito dell’eccessivo numero di studenti, privi delle necessarie competenze di base, che affollano le facoltà umanistiche ha il merito di affrontare a voce alta e senza ipocrisia cose che tra colleghi docenti si dicono ormai da tempo sottovoce e badando a non farsi sentire troppo distintamente, che cioè l’insegnamento delle discipline umanistiche all’Università stia progressivamente sbiadendo, perché tutti noi arretriamo giorno dopo giorno di fronte all’abbassamento di livello degli studenti che laureiamo.

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Tradurre Machiavelli? No! Dichiaro aperto il dibattito (a proposito di “Tradurre Machiavelli?” di Marco Santagata, “la Rivista dei Libri”, n. 5, maggio 1998, pp. 11-12)

[«La Rivista dei Libri», n. 9, settembre 1998]

Si scuserà il cedimento del titolo all’irresistibile ricordo cinematografico, che non vuole essere segno di irriverenza, bensì ammissione di imbarazzo di fronte alla scabrosità dell’argomento, al pari di quello, più annoso, del noto dibattito di Berlinguer, ti voglio bene (“Pole la donna uguagliassi all’omo?”) di cui appunto, tra remore e condizionamenti irriflessi, pure bisognava parlare. E parla, infatti, superando le reticenze di molti, l’articolo di Marco Santagata (“la Rivista dei Libri”, maggio 1998), che, partendo dai risultati dei test della Facoltà di Lettere di Milano, prende atto della scarsa dimestichezza delle matricole con la lingua della letteratura, si interroga sui possibili canali di trasmissione e sull’effettiva fruibilità del patrimonio letterario, e arriva fino a ipotizzare, provocatoriamente, l’uso di traduzioni di Machiavelli in italiano moderno.

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