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Di nuovo i classici in traduzione?

[«Generazione Goldrake», 3 novembre 2013]

L’«Avvenire» del 31 ottobre (Caro Dante, fatti capire! di Edoardo Castagna) dedica una pagina di Agorà alla questione se sia opportuno, come avviene in Inghilterra e in Francia, che a scuola si leggano i classici della letteratura italiana in traduzione moderna. Il dibattito non è nuovo: se ne è parlato a lungo già quindici anni fa, quando fu aperto sulla «Rivista dei Libri» da Marco Santagata, che aveva pubblicato una versione in prosa delle Canzoni di Leopardi, e devo dire che l’evoluzione socioculturale di questi anni ha rafforzato in me la convinzione di fondo che esprimevo nel mio intervento di allora (“Tradurre Machiavelli? No! Dichiaro aperto il dibattito”, «Rivista dei libri», settembre 1998).

Oggi, come allora, ritengo che sul piano linguistico non si sia verificata una frattura tale da relegare la nostra letteratura nel folder delle lingue morte. E continuo a pensare che proprio l’insegnamento di questa lingua, negli aspetti lessicali e sintattici, sia essenziale nella formazione culturale e civica degli italiani di oggi. La perdita di centralità della nostra letteratura è avvenuta su un piano più profondo, cioè è il modello stesso di paideia sul quale l’insegnamento della letteratura si fondava ad essere entrato in crisi, ed è quello che dobbiamo essere capaci di ripensare in questo momento storico («Quanti di quelli che non leggono Boccaccio perché non lo capiscono si danno in alternativa alla lettura di Sofocle tradotto? Allo stato attuale delle cose, Boccaccio non è in competizione con Sofocle, ma con Beautiful»).

Quello che si può aggiungere oggi è che lo slittamento ai margini della letteratura, a livello di medium, non è più circoscrivibile al superamento della parola scritta attuato dal cinema e dalla televisione le quali, ormai possiamo dirlo, solo state in questo processo soltanto una tappa, e neppure all’azione ancora in corso di internet. Il futuro sarà, e in parte è già, la ‘realtà aumentata’,  ossia l’interazione fra la realtà vera vissuta dall’individuo e quella virtuale che potrà creare intorno a sé, ragion per cui, se veramente l’obiettivo è far trasmigrare il contenuto di un classico della letteratura nella ‘lingua’ nuova, dovremmo ‘tradurla’ in un software che ne permetta una fruizione interattiva (esempi ne esistono già), perché dubito che le generazioni future possano condividere con noi il senso stesso di un’opera d’arte immodificabile. Ma non credo che dobbiamo volere questo. Il futuro avrà i propri contenuti, li elaborerà da solo, senza bisogno di pescarli dal Decameron o dal Principe. Quello che dobbiamo fare oggi, che è urgente e drammatico, è combattere l’analfabetismo dei giovani e insieme la perdita del senso storico ed estetico (mi convinco sempre di più che le cose siano legate e vadano di pari passo).
E quindi, sul piano semplicemente operativo, resto d’accordo con Eraldo Affinati, che di queste cose se ne intende, nell’idea che il punto di arrivo deve continuare a essere il testo – cioè l’opera d’arte – originale e che la parafrasi integrale in prosa moderna, come quella dell’Inferno del medesimo Marco Santagata, il quale per scriverla ha dovuto sciogliere difficoltà linguistiche e interpretative tutt’altro che banali, sia (solo) uno strumento utilissimo per arrivarci.

Di Roberto Bolle, di Michelangelo e del binocolo prismatico. Resoconto semiserio di un’esperienza estetica
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