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«È finito il diluvio?» Trenta scrittori alla prova della rinascita nazionale

[L’Huffington Post, 30 marzo 2014]

“Mettiamo il viso fuori dall’acqua appena ora, e non sappiamo come ciò sia possibile, tiriamo fuori la mente dalle cose, e ci guardiamo intorno: e guardiamo in alto. Molti come noi guardano in alto: nessuno ha visto apparire l’arcobaleno. Quelli dell’Arca dicono che la colomba è tornata. Ma il cuore si è fatto così sospettoso che noi non crediamo più nemmeno ai nostri sapienti. E’ veramente finito il diluvio?” Così Giacomo Noventa, nei mesi immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, descriveva lo stato d’animo degli italiani che si affacciavano alla vita democratica.

Lo scritto fa parte del volume Dopo il diluvio. Sommario dell’Italia contemporanea, pubblicato da Dino Terra nel 1947 e ora riproposto alle stampe con la curatela di Salvatore Silvano Nigro (Sellerio), che raccoglie gli scritti di trenta letterati volti a tracciare un ritratto dell’Italia di allora. Non un lavoro scientifico, ma “una genuina impresa letteraria”, in cui ognuno tratta secondo la propria sensibilità il tema particolare affidatogli, con l’obiettivo di rifondare, dopo il fascismo, una comunità sociale e morale, sulla linea tracciata dal saggio di Alberto Savinio sulla Sorte dell’Europa e con un occhio al leopardiano Stato presente dei costumi degli italiani.

E’ curioso leggere queste pagine oggi che, senza aver vissuto una guerra e senza aver subito un regime totalitario, lo sbigottimento degli italiani di fronte al futuro sembra essere tuttavia molto simile, e paurosamente simili sono i problemi che ci troviamo ancora ad affrontare, dai rapporti tra il cittadino e lo Stato alla questione della Chiesa alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico alle nuove povertà.

Lo Stato, osserva Savinio, è “della natura dei tumori”, un organismo dentro un organismo che “tende a immalignire”: cresce nutrendosi del popolo e della nazione che lo hanno dentro di sé. E quando la nazione è arrivata al punto massimo di svuotamento, al minimo urto, come una noce marcia, si rompe.

Il popolo italiano, per effetto del suo “ingenito cattolicismo” è restio ad abbandonare il concetto tolemaico dell’universo e questa fedeltà a un concetto così statico gli dona un “benessere vegetativo”, ma lo pone “alla periferia delle attività culturali, frappone fra lui e i popoli culturalisti ed evoluzionisti una ineffabile barriera, determina quell’anemia, quelle difficoltà in politica estera, quella non partecipazione a taluni interessi generali che tutti insieme sono la causa della vita grama e isolata dell’Italia”.

Guido Piovene riflette sulla grande potenza politica della Chiesa, destinata a giovarsi della sconfitta collettiva, favorevole “alle nuove sottomissioni”. Per ogni italiano, educato fin dall’infanzia al culto cattolico, “il distacco dalla Chiesa è un po’ simile al distacco dalla madre”. Piovene non riconosce alla Chiesa nessuna funzione progressiva alla Chiesa, “l’unica forza conservatrice veramente salda e adatta all’indole del popolo, l’unica con cui le forze rivoluzionarie dovranno un giorno fare i conti” e non ammette – con poca lungimiranza, bisogna dirlo – alcuna possibilità reale di successo per i movimenti politici progressivi legati alla Chiesa.

Tra i saggi più interessanti raccolti nel libro, le pagine di Alberto Moravia che sviluppano un paragone tra la borghesia italiana e quella degli altri paesi europei: le borghesie europee custodiscono nel proprio seno le “tradizioni morali, politiche, religiose, culturali e artistiche” di ciascun paese e al loro interno ogni individuo “compendia” i valori della classe intera; in Italia, invece, “le professioni prevalgono sulla società” e la borghesia esiste soltanto come classe economica, è priva di unità, anarchica e sterile: “Ogni volta che in Italia ci si imbatte in qualcosa che abbia valore, si può star sicuri che questa cosa è un prodotto puramente individuale”. La borghesia italiana, preoccupata di salvare il proprio benessere materiale, credette di trovare nel fascismo l’unità morale che le mancava. E dopo la catastrofe della guerra, tra le due vie possibili, quella della libertà e quella del fascismo, Moravia si dice propenso a credere che la borghesia percorrerà ancora una volta la seconda, cedendo alla facile tentazione di mantenere la tutela economica straniera in Italia e acconsentendo a fare dell’Italia una specie di Egitto, ossia “una terra di classi dirigenti grossolanamente cosmopolite e edonistiche e di plebi affamate e asservite”, condizione nella quale si avrebbero tutte le apparenze del liberalismo e tutta la sostanza del fascismo.

Molto militante, in accordo alle aspettative, il saggio sugli operai di Carlo Bernari, che rievoca gli anni in cui scriveva Tre operai: “Che si possa almeno sperare in successive e più avanzate tappe sulla strada di una concreta democrazia sociale che veda esteso il diritto alla libertà dalla parola al fatto non può più essere un sogno, oggi. Ma occorre che il ponte creato dalla classe operaia, con l’alleanza fra i medi ceti e gli intellettuali, non si rompa”.

Una pagina letteraria vera e propria, nella quale i personaggi prendono vita e si muovono alla maniera della cinematografia neorealista, è lo scritto di Emilio Cecchi sui trafficanti della borsa nera a Roma: “Stava Roma fra i due eserciti, enorme, lasciata a se stessa come cosa di nessuno […] le strade formicolavano di mendicanti: in gran parte bambini, ingozzati in frusti berretti militari […] Si raccontava di scalucce tortuose e quasi impraticabili; e in cima alle scale, enormi letti a due piazze, nelle camerette stipate sacchi di zucchero e forme di cacio. Sui letti erano distesi quarti di manzo”.

Molte sono le direttrici lungo le quali gli autori sviluppano la loro analisi della realtà italiana, anche se non tutti gli interventi raggiungono lo stesso livello di profondità critica. Il saggio di Ungaretti, più volte rimaneggiato e ristampato dall’autore, riflette sull’ufficio del letterato al tempo delle guerre; Aldo Palazzeschi racconta il ritorno a Settignano, paese della sua infanzia, e descrive la devastazione che vede nel paesaggio, “nato dallo sposalizio felice tra il genio dell’uomo e la bellezza della sua terra”; Riccardo Bacchelli traccia in poche pagine una storia morale della marineria italiana; Mario Soldati rimpiange l’amore per la libertà che fioriva nei cuori sotto la tirannide; e Francesco Jovine osserva i nuovi poveri prodotti dalla guerra, privi di rassegnazione come di spirito di rivolta, ma carichi di rancore.

Completamente assenti, su trenta autori, le voci femminili, che nel Dopoguerra erano varie e molto lucide, come ricorda Guido Crainz nella postfazione al volume, ma questo, all’indomani della bocciatura in Parlamento dell’alternanza di genere nella legge elettorale, sessantasette anni dopo, chissà perché, non ci stupisce affatto.

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