[«L’Huffington Post», 5 ottobre 2016]
Sono rimasta stupita dalle critiche che hanno sommerso il giornalista Claudio Gatti per aver pubblicato sul Sole 24 Ore un’inchiesta in cui si elencavano dati finanziari a sostegno dell’ipotesi che Elena Ferrante sia in realtà Anita Raja, il cui nome circola da anni tra le ipotesi più accreditate. Da lettrice, mi sembra che si sia trattato di un lavoro svolto con i mezzi classici del giornalismo d’inchiesta e che sia francamente immeritato definirlo, come è stato fatto, soprattutto da altri scrittori, un “rovistare come i gatti nei bidoni” o “il più grande autogol giornalistico dei nostri tempi”.
Che l’identità di Elena Ferrante sia uno dei misteri più intriganti per il pubblico mondiale dei lettori basta da sé, malgrado le buone ragioni degli indignati, a giustificare l’indagine. Quando J.K. Rowling, in cerca di un po’ di anonimato, ha firmato con uno pseudonimo un libro giallo, è stata presto smascherata, senza che si sia gridato allo scandalo. Diversamente, dovremmo anche smettere di chiederci chi è Bansky e di indagare sull’autore dei bitcoins.
Trovo più interessante, invece, riflettere sui dati nuovi che il lavoro di Gatti ha portato alla luce e sul ragionamento che svolge. In particolare, ho trovato poco logico il fatto che, mentre considera probante il dato catastale dell’acquisto di una casa da parte di Anita Raja in concomitanza con l’incremento dei diritti d’autore legati al film sull’Amore molesto, quando ad acquistarla – con i presunti diritti delle traduzioni anglosassoni – è il marito, Domenico Starnone, Gatti lo escluda come possibile autore, sostenendo che i soldi sarebbero comunque della moglie. Se la pista dei soldi, che Gatti sostiene, vale per l’una, dovrebbe valere anche per l’altro. Perché negare che Starnone possa essere autore anch’egli dei romanzi, come del resto si è sospettato più volte in passato? Sul piano logico, dovremmo pensare che, se entrambi incassano, è perché entrambi quei soldi se li sono guadagnati.
E poiché, da lettrice, continuo a ritenere convincenti le argomentazioni con cui Santagata disegnava un identikit della Ferrante compatibile con la biografia di Marcella Marmo, e lo stesso Gatti ammette che nulla o quasi della biografia della Raja affiora nei romanzi, mi chiedo: e se i romanzi della Ferrante fossero scritti a più mani? Se ci fosse un’autrice che scrive il nucleo centrale di un romanzo, o una voce che racconta una storia, e poi un’altra mano, del mestiere, che riscrive, migliora e amplia la narrazione fino a darle la forma di romanzo? E se le mani che intervengono fossero più di una? Se, insomma, Elena Ferrante fosse non una persona, ma un piccolo gruppo di lavoro, che si è creato per amicizia, affezione, comunità d’intenti e di interessi, magari non subito, ma nel corso del tempo? In fondo, i primi romanzi sono piuttosto diversi dalla tetralogia dell’Amica geniale e anche all’interno di ciascun romanzo vi sono alcune parti in cui la narrazione è lenta e la descrizione è precisa e altre in cui invece esse sono stringate e veloci.
Lo dico con rispetto per tutti coloro che sono parte in causa, ma questo sarebbe un ottimo motivo per tenerne così segreta l’identità e per reagire in modo irritato ai tentativi di svelarla. La fortuna dei libri di Elena Ferrante è andata, probabilmente, molto al di là di quanto chi l’ha creata avrebbe potuto immaginare. Ormai, con tutto il mondo che la legge e la ammira, ammettere che si tratta di un lavoro di gruppo potrebbe essere molto imbarazzante.
Eppure non dovrebbe esserci niente di scandaloso nell’idea che un romanzo sia opera di un gruppo di lavoro. È successo altre volte, e con risultati interessanti. La difficoltà con cui si fa largo questa ipotesi, che invece spiegherebbe molte cose, mostra quanto siamo ancora legati alla vecchia idea di identità autoriale, nonostante siamo tutti esposti quotidianamente a ottimi prodotti artistici, come film e serie Tv, nati dalla collaborazione creativa di più persone.
Ma come il cinema ci ha insegnato, il fatto che un’opera sia frutto del lavoro di molte persone non impedisce affatto che contenga una forte impronta autoriale. E se la resistenza a questa idea è comprensibile da parte del grande pubblico, romanticamente affezionato all’unicità dell’autore, lo è molto di meno da parte degli addetti ai lavori – scrittori, giornalisti, pubblicisti -, ai quali non può essere certo riconosciuta alcuna ingenuità da questo punto di vista, e sentirli esclamare “Lasciatela in pace, conta solo il valore dei suoi libri” è davvero piuttosto curioso.