[«L’Huffington Post», 22 luglio 2016]
Diceva Benigni, quando nei suoi spettacoli faceva Dio che, tornato sulla Terra, si stupiva di come i fedeli avessero frainteso i suoi insegnamenti: “Ho l’impressione che abbiate un problema con le donne”. In Italia, è noto, abbiamo un problema con le donne. Viviamo in un paese in cui l’uso di termini al femminile come sindaca e ministra causa una levata di scudi e sorrisi di compatimento, e infatti le sindache vengono chiamate “bamboline” e alle ministre si consiglia di occuparsi di cellulite piuttosto che di riforme istituzionali. In un paese come questo, è normale pensare alla grande letteratura come a un fatto di uomini.
A scuola – e purtroppo spesso anche all’Università – non si ritiene, per lo più, di far leggere, per i secoli dalle origini all’Ottocento, l’opera di alcuna autrice. Esse compaiono nei programmi universitari di qualche collega che si occupa di letteratura femminile, ma quando si tratta di stilare il canone dei buoni e classici autori, la comunità scientifica rimane impermeabile alle sollecitazioni di una bibliografia critica che pure ormai è consistente.
Si dirà: è normale, una volta le donne erano escluse dagli studi e quindi i grandi autori del passato sono tutti uomini. Ma se dovessimo dare credito alle indicazioni ministeriali, dovremmo pensare che l’Italia sia stata povera di grandi scrittrici anche nel corso del Novecento: l’unica donna presente nell’elenco degli autori indicati dal Ministero dell’Istruzione per il programma scolastico è Elsa Morante. E se alcuni nomi, come quello di Natalia Ginzburg e Maria Bellonci sono noti al grande pubblico, molte scrittrici di assoluto rilievo sono sconosciute al lettore che esce dal liceo. Del resto, si possono tranquillamente scrivere manuali scolastici che ne ignorano l’esistenza.
Non riesce a entrare nel canone neppure quella splendida narratrice che è Anna Maria Ortese, che pure è reperibilissima (il problema della mancata ristampa dei testi affligge – causa ed effetto allo stesso tempo dell’oblio che le ha falcidiate – anche molte delle scrittrici che ebbero notorietà alcuni decenni fa) e pubblicata da Adelphi. Il mare non bagna Napoli, per dire, è uno di quei testi che andrebbero letti a scuola, come si fa con Se questo è un uomo, per la capacità di rendere nella pagina la crudezza della realtà sociale, e per di più è scritto in una lingua talmente viva che sembra scritto oggi, cosa che purtroppo non si può dire per buona parte della narrativa del Novecento divenuta canonica, che a livello linguistico, prima che tematico, dimostra spesso più degli anni che ha. Ma quanti dei nostri ragazzi l’hanno letto? Le opere delle scrittrici rimangono normalmente confinate in una nicchia di pubblico colto. In ciò il sistema educativo, sia scolastico che universitario, ha agito fin qui, a parte lodevoli eccezioni, con una forza poderosa di esclusione, tenendole al di fuori del canone degli autori da far leggere e studiare.
Al contrario, le scrittrici di valore pullulano nella seconda metà del secolo scorso, e si tratta di intellettuali che ebbero un peso anche nel dibattito culturale e nel giornalismo letterario e politico dei primi decenni della Repubblica. A ricordarcelo è un volume monografico dell’Illuminista, rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà (Edizioni Ponte Sisto), dedicato a Fabrizia Ramondino, curato da Beatrice Alfonzetti e Siriana Sgavicchia, che da molti anni studiano la scrittrice.
Fabrizia Ramondino, nata a Napoli nel 1936 (ma rifiutava l’etichetta “scrittrice napoletana”e in verità fu nomade e poliglotta) e scomparsa per un malore in riva al mare nei pressi di Itri nel 2008, è una narratrice potente, capace di dare alle memorie familiari la pregnanza dell’affresco storico. Il volume di cui parliamo contiene alcuni testi inediti o dispersi dell’autrice (tra questi Il maestro e io e Il mio Sessantotto) e tre sezioni critiche, una di pregevoli saggi inediti e due che raccolgono invece saggi già editi, recensioni e interventi di critica militante usciti dagli anni Ottanta ad oggi. È importante segnalarlo qui, perché ci dà un ampio quadro sinottico della critica passata e presente e costituisce il volume di maggiore respiro di cui si possa oggi disporre sulla scrittrice, insieme agli atti del convegno che si tenne alla University of London nel gennaio 2010, usciti nel 2013 con il titolo “Non sto quindi a Napoli sicura di casa”: identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino, a cura di Adalgisa Giorgio (Morlacchi editore).
Da poco è in libreria anche la nuova edizione Einaudi di Althénopis a cura di Silvio Perrella. Althénopis (“Occhio di vecchia”, nome con cui la scrittrice designa la Napoli degradata e imbruttita della seconda guerra mondiales), romanzo d’esordio e capolavoro insieme, uscì nel 1981, imponendosi con la sua narrazione memoriale ed evocativa. È un romanzo in tre tempi, dominato dalla presenze femminili della madre e della nonna: la prima parte narra gli anni infantili della scrittrice, tra il 1943 e il 1948, quando si rifugiò con la famiglia a Santa Maria di Massa Lubrense, chiamata nel romanzo Santa Maria del Mare; nella seconda parte, la guerra è finita e, morto il padre, la figlia adolescente si trova a peregrinare tra varie case con la madre, il fratello e la sorellina; l’ultima parte (il titolo, Bestelle dein Haus, viene da una cantata di Bach), relativa a un’età più tarda, coincidente con il progressivo spegnersi della madre, fu la prima a essere scritta, in un periodo trascorso dall’autrice a Milano a metà degli anni Sessanta.
All’epoca dell’esordio narrativo Ramondino aveva già condotto, nel 1977, un’inchiesta commissionatale da Goffredo Fofi sui disoccupati organizzati di Napoli e sarebbe tornata al racconto sociale con Passaggio a Trieste (2000), sull’esperienza trascorsa nel triestino Centro Donna Salute mentale in occasione del ventennale della legge Basaglia.
Nei decenni successivi scrisse racconti, come quelli di Storie di patio (1983), e romanzi, tra i quali l’altro capolavoro Guerra di infanzia e di Spagna (2001), sugli anni della prima infanzia trascorsi a Maiorca, l’Isola riflessa (1998), su un periodo passato a Ventotene, e altri ancora, fino al postumo La via (2008), quasi tutti pubblicati da Einaudi. Il pubblico cinematografico la conosce perché fu coautrice, con Mario Martone, della sceneggiatura di Morte di un matematico napoletano (1992). Ma per molti versi, per il realismo visionario, la narrazione dell’infanzia, e soprattutto per la capacità di elevare le memorie individuali ad affresco storico, Fabrizia Ramondino si colloca sulla linea che dalle grandi Morante e Ortese arriva ad Elena Ferrante. Viene da chiedersi se un’autrice di questo livello, letta e apprezzata, come spesso capita, più all’estero che in Italia, non meriti finalmente un Meridiano Mondadori.
Forse è giunta l’ora di ripensare al canone letterario del Novecento chiedendoci come mai ne siano state espunte donne del calibro di Alba de Céspedes, Anna Banti (loro un Meridiano, per fortuna, l’hanno avuto, pochissimi anni fa, benché sembri che anche ciò sia servito a poco nel diffonderne la conoscenza), Gianna Manzini, Fausta Cialente, Dolores Prato… E bisognerebbe scrivere, finalmente, una storia del romanzo italiano del secondo Novecento che segua le fila dei percorsi narrativi femminili in una prospettiva d’insieme e definisca il ruolo dell’ottima letteratura che le donne hanno dato all’Italia.