Nella giornata mariana di ieri, papa Francesco ha detto di essere addolorato dal fatto che la condizione della donna all’interno della Chiesa sia spesso non di servizio, ma di servitù. La pena visibile con cui il papa ha fatto queste riflessioni è l’onesto riconoscimento che la condizione della donna, nella Chiesa cattolica, continua a costituire un problema, e allora non possiamo tacere che il vero nodo della questione è l’esclusione femminile dal sacerdozio. Su questo tema, Bergoglio ha dichiarato, tempo fa, che la questione è chiusa, essendoci già stato un pronunciamento ufficiale, ma personalmente fatico a credere che il pensiero di questo papato, così rivoluzionario per tanti aspetti, possa davvero essere così pacifico come apparirebbe.
E non solo perché diventa sempre più imbarazzante il paragone con l’universo cristiano non cattolico, nel quale le pastore sono una realtà che non sembra aver mai dato prova di manifesta inadeguatezza, ma perché contrasta con la volontà della Chiesa stessa di valorizzare il ruolo femminile. Il papa ha detto: “A me piace pensare che la Chiesa non è ‘il Chiesa’: è donna e madre […] e questo è bello”; ha detto che la donna ha una “sensibilità particolare per le cose di Dio”. Ma nel momento stesso in cui si afferma che la donna è chiamata a svolgere un ruolo ‘diverso’ da quello del sacerdozio, si sta dicendo ipso facto che è un ruolo inferiore, anche se lo si nega, anche se non lo si vorrebbe, perché, in termini logici, la preclusione a qualcosa implica la mancanza di qualche requisito necessario.
Vent’anni fa, a Vienna, avevo un amico sacerdote, claretiano, con il quale trascorrevo i pomeriggi conversando di religione, letteratura e speranze giovanili. Un giorno mi confidò che si vergognava, tanto erano deboli le pezze d’appoggio addotte dalla dottrina a divieto dell’ordinamento sacerdotale per le donne. Quell’amico era Pablo d’Ors, che adesso è uno dei più apprezzati romanzieri spagnoli, e non so dire come la pensi attualmente in proposito. Quanto fondate siano in realtà le motivazioni dottrinali che impediscono il sacerdozio femminile, lascio che sia la comunità ecclesiale a discuterne. Ma mi chiedo come facciano i catechisti, oggi, a spiegare alle bambine che arrivano a comunione che non possono, loro, avere la vocazione ad amministrare i sacramenti, mentre i loro amichetti maschi invece sì. Perché a ciò si ribella non solo la nostra intelligenza, ma direi ogni nostra cellula: se c’è un’acquisizione della contemporaneità dalla quale davvero non si può tornare indietro, questa è la consapevolezza che la persona travalica la categoria alla quale appartiene e non c’è futuro per chiunque creda di poter continuare a mortificare l’individuo inchiodandolo alle presunte caratteristiche della categoria cui apparterrebbe, sia essa basata sull’etnia, sull’orientamento sessuale e, men che mai, sul genere, quand’anche tali caratteristiche siano presentate come positive. Anche perché i cristiani lo sanno benissimo che è stato Gesù il primo a gridare al mondo il valore della persona sottraendolo alla schiavitù della categoria (la prostituta, il pubblicano, i malati, i bambini, ecc.). Davvero non c’è mai una bambina che si alza e dice: “Padre, io ho la vocazione al sacerdozio”? E se ci fosse, quale sarebbe la risposta? “Figliola, ti stai sbagliando, ciò non è possibile. Per te Dio ha pensato un ruolo diverso”…