[«L’Huffington Post», 14 novembre 2014]
Da tempo sono convinta che una delle sfide, forse quella fondamentale, dell’italianistica di oggi sia quella di tornare a parlare alla comunità dei lettori, uscendo dalla cerchia asfittica degli addetti ai lavori. Un tempo, un buon libro sulla letteratura italiana era un libro letto da tutti (tutti coloro che avevano una buona formazione scolastica, ovvio). Oggi è rarissimo che uno dei nostri libri venga letto da chi non è studioso dello stesso ambito disciplinare. Perché ciò accada, occorre che i libri che scriviamo siano, prima di tutto, leggibili per chi non è specialista della materia, vale a dire che devono essere scritti in una lingua davvero comunicativa e non criptica, piena di tecnicismi e dalla sintassi ingarbugliata. Ed è inutile nasconderlo: nulla è più respingente, per il lettore medio, della forma tipica del testo con le sovrabbondanti note a piè di pagina alla quale sempre più abbiamo affidato la scrittura scientifica negli ultimi cinquant’anni.
Le note dovrebbero tornare a essere un’appendice della quale il lettore possa tranquillamente fare a meno, e non una gabbia che imbriglia il testo in un dialogo inseparabile (forse giova ricordare che Fubini e Binni scrivevano ancora i loro libri nella forma discorsiva che noi abbiamo abbandonato, e infatti i professori di liceo li leggevano).
Ma certo non è soltanto una questione di forma. La verità è che la specializzazione estrema degli ultimi decenni ci ha portato ad occuparci sempre più di argomenti minimali, facendoci perdere di vista le grandi questioni e l’importanza di scrivere per chi sta al di fuori dell’accademia. La distanza tra l’orizzonte culturale di riferimento del lettore di oggi e il mondo dei nostri grandi scrittori del passato è talmente abissale che sembra aver instillato nella maggioranza di noi la convinzione che sia vano anche soltanto provare a renderli accessibili al lettore non specialista. Certo, è l’ordine dei valori del mondo ad essere cambiato: la letteratura non ha più, nella vita delle persone, quel valore formativo che aveva un tempo. Ma forse parte della responsabilità è anche nostra.
L’obiezione più rilevante mossa ai libri che vogliono essere divulgativi è che inevitabilmente, per rendere accessibili contenuti ostici, diventano approssimativi e, in definitiva, non rigorosi sul piano scientifico. Beh, il rischio c’è, ma non è inevitabile. Chi ne vuole la prova legga L’amoroso pensiero. Petrarca e il romanzo di Laura di Marco Santagata, appena uscito per Mondadori. Santagata è uno che queste cose le sa fare. Tra i massimi esperti di Dante e Petrarca, è riuscito nella sfida di scrivere libri fruibili agli studiosi, perché contengono idee e ricerche nuove, e al tempo stesso godibili ai comuni lettori, perché sono pensati per essere comprensibili ai più. L’ha fatto con la biografia Dante. Il romanzo della sua vita, con il racconto dell’Inferno e ora con Petrarca, che è ben meno popolare di Dante, a partire dalla grafia con cui è scritto il Canzoniere.
Non marginale, tra le scelte divulgative di Santagata, è infatti quella di ammodernarne la grafia. Sembrerà curioso a chi non è del mestiere, ma bisogna avere coraggio per farlo. Siccome di Dante non possediamo autografi, i filologi hanno giustamente adottato per le sue opere una grafia moderna, mentre, potendosi giovare dell’autografo del Canzoniere, hanno mantenuto le abitudini grafiche di Petrarca. Il risultato è che il Canzoniere sembra più antico della Commedia di Dante e che il lettore mediamente colto legge ad alta voce “Chiare, fresche ET dolci acque”. Sono problemi noti tra gli addetti i lavori, ma quasi nessuno rompe la prassi consolidata, perché significa andare contro l’autorevolezza di Gianfranco Contini, che del Canzoniere ha stabilito il testo critico – per non parlare della maestà di Petrarca medesimo.
Santagata racconta la storia dell’amore di Francesco per Laura e al tempo stesso la storia del libro che quell’amore raccoglie, ma lo fa mettendosi dal punto di ascolto di un lettore di oggi. L’accessibilità al testo è data non dalla semplificazione della materia, che resta impegnativa – viene detto tutto quello che è importante sapere per capire un’operazione così complessa culturalmente e letterariamente come la composizione del Canzoniere -, ma dalla spiegazione di ciò che un lettore comune non sa del codice comunicativo della poesia e del contesto culturale medioevale, e dalla scrittura, tesa più verso la narrazione che verso l’analisi. Inframmezzate alla narrazione sono proposte al lettore un centinaio di liriche, senza l’appesantimento di alcuna nota linguistica, ma tutte corredate di parafrasi integrale. Il Canzoniere, in questo modo, non è diventato facile, è diventato comprensibile ai lettori comuni.
Che cosa si impara? Che la divulgazione non deve più essere lasciata alla fascia intermedia dei comunicatori, di quelli, per capirci, che, ignari di Rinascimento, pensano di poterlo divulgare perché saprebbero raccontare, ma devono farla gli specialisti, quelli che lo studiano da una vita e che soli sono capaci di trovare il sinonimo giusto per indicare in maniera semplice una cosa difficile, senza fraintendimenti e banalizzazioni, perché ‘rem tenent’. Certo, occorre che si rendano finalmente conto che farlo è bello e giusto. E soprattutto necessario.
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