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Se l’interesse nazionale preferisce l’inglese

[«ilSole24ore», 30 dicembre 2017]

Il mondo dell’università ogni anno aspetta con ansia l’uscita dei bandi per il finanziamento della ricerca di base, una boccata d’ossigeno nella generale povertà in cui versa: sono i «Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale», noti con l’acronimo di PRIN. I PRIN escono sempre in ritardo e spesso saltano gli anni. E come il resto dei finanziamenti all’università hanno subito nel tempo un forte decurtamento. Tra Natale e Capodanno il PRIN 2017 è finalmente stato bandito ma non si fa in tempo a rallegrarsene che la prima cosa che salta agli occhi è la degradazione della lingua italiana a lingua secondaria: «La domanda – si legge – è redatta in lingua inglese; a scelta del proponente, può essere fornita anche una ulteriore versione in lingua italiana».

È grave che il Ministero dell’istruzione della Repubblica italiana tratti la lingua nazionale alla stregua di una lingua minore, rendendone facoltativo l’uso nella stesura di progetti che hanno nel loro nome l’aggettivo “nazionale”.

Cosa normale e sensata sarebbe il contrario: richiedere l’uso dell’italiano con l’accompagnamento di una versione in inglese, perché è giusto che il panorama della nostra ricerca sia conoscibile e valutabile in ambito internazionale. E infatti così stavano le cose fino al PRIN 2012, il quale voleva che il progetto fosse redatto «in italiano e in inglese»; in quello successivo, il PRIN 2015, l’ultimo ad essere bandito prima dell’attuale, si chiedeva che la domanda fosse «redatta in lingua italiana o inglese, a scelta del proponente»; nel PRIN 2017 l’inglese è obbligatorio e l’italiano è divenuto superfluo. Vi è dunque una strategia, in questo piano inclinato verso la soppressione della nostra lingua, la quale lascia supporre che nel PRIN prossimo venturo dell’italiano non si farà più parola. È il momento di segnalare la cosa all’attenzione dell’opinione pubblica e degli organi istituzionali, affinché non passi sotto silenzio.

La promozione e la ripresa del Paese passano anche da questo: dal rispetto che si ha della propria lingua. La scelta di rinunciare alla lingua nazionale, nella sua insensatezza, ha conseguenze negative sul piano culturale ed economico, poiché rischia di rendere vani gli sforzi di tutti coloro che operano per il rilancio del nostro Paese. Perché mai dovremmo affaticarci a promuovere l’italiano in giro per il mondo – e con la lingua viaggiano anche la creatività e la produzione italiana, non dimentichiamolo – se a considerarlo inutile sono coloro che per primi dovrebbero difenderlo?

Spiace dirlo, ma è l’ennesima prova del provincialismo dell’attuale ceto politico, drammaticamente inadeguato alle sfide che abbiamo di fronte, che scambia per internazionalizzazione la dismissione dell’identità nazionale.

Ci permettiamo di dare un suggerimento al Ministero dell’istruzione: visto che l’italiano per loro è evidentemente una lingua inutile, la prossima volta scrivano il bando direttamente in inglese; forse, allora, riusciremo a prenderli sul serio.

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