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L’italiano ai tempi dell’alta velocità ferroviaria: utente, cliente o corpo vile?

Una volta c’era il servizio pubblico e c’erano gli utenti del servizio pubblico, i quali spesso erano scontenti perché il servizio pubblico funzionava male. Poi hanno liberalizzato, privatizzato, spacchettato e ricapitalizzato, e ci hanno detto che gli utenti ormai erano diventati clienti, status più dignitoso in quanto presupporrebbe un rapporto trasparente basato sul pagamento di una tariffa adeguata al mercato per l’acquisto di un servizio di qualità. In effetti, non si può dire che molte cose non siano cambiate. Ma lasciamo perdere i discorsi sul sistema, che rimane ancora in molti settori monopolistico e tutt’altro che trasparente, e focalizziamoci sullo stato di salute del cliente, e in particolare sul cliente delle ferrovie, quello che, molto o poco che sia, prende il treno per lavoro o per piacere, vale a dire tutti italiani – quelli che non hanno un aereo privato o l’autista a disposizione.

Dunque il cliente ha dei diritti, perché paga per ottenere un servizio. E certo è ben felice di impiegare solo tre ore per arrivare da Milano a Roma andando a 300 km orari, come è felice di trovare una sala Frecciarossa dove siede comodo e gli sono offerti, fino alle 11 di mattina, bibite e croissant, durante l’attesa. Poi, però, è costretto, in treno, ad ascoltare un messaggio di benvenuto che lo informa che ai passeggeri della classe business (quindi non a lui) sarà offerto un giornale e un drink di benvenuto: “Ma se nella mia carrozza non li offrono, perché non limitano la trasmissione dell’annuncio alle carrozze interessate, evitando di disturbarmi? Non risulta che in aereo ai passeggeri dell’Economy venga annunciato a gran voce che in First mangeranno caviale Beluga… “.
Quando Trenitalia ha introdotto, al posto della prima e della seconda classe, la partizione in business, premium e standard, qualche genio aveva pensato di sbarrare le porte di passaggio tra un settore e l’altro, senza che a nessun manager venisse in mente che, in caso di pericolo incombente, il blocco alle porte poteva costituire un ostacolo fatale alla salvezza delle persone, e soltanto le proteste dell’opinione pubblica sono riuscite a cambiare la situazione.
L’Italia, poi, è fatta di tante piccole città dove il cliente dovrà recarsi, presto o tardi, e necessariamente a una velocità più bassa. E non è affatto felice quando arriva in stazione e scopre che per lui non esiste più la sala d’aspetto perché è passeggero di un intercity o di un regionale: deve essere una grave colpa, perché viene in questo caso lasciato al freddo o al caldo (non a seconda delle stagioni, visto che non ci sono più, come è noto: diciamo a seconda di come si sono messi d’accordo Borea e Zefiro, quel giorno). La risposta che il personale ferroviario fornisce, di solito, è che le sale d’aspetto sono state soppresse perché si riempivano di persone senza fissa dimora, ma all’ingenuo cliente questa non pare affatto una difficoltà insormontabile: basterebbe controllare all’entrata il possesso del biglietto. Ci si può sedere nei bar, dicono. Il viaggiatore, tuttavia, ha già pagato un biglietto e ritiene che sia disonesto essere costretto a pagare ancora per sedersi e ripararsi dalle intemperie.
Sembra che il buon senso vada sempre più smarrito, nelle nostre ferrovie. Giorni fa, alla stazione di Torino, sono passata davanti all’ufficio “Assistenza clienti”. Dentro c’erano due impiegati che si stavano occupando di due clienti. E fuori, all’aperto, esposta alla calura, c’era la fila degli altri, in piedi, in attesa: “Come mai aspettate fuori? Dentro ci sarà l’aria condizionata”.
“Dobbiamo aspettare fuori per via della privacy”, mi rispondono. Guardo e vedo che l’ufficio non è grandissimo, ma è sufficiente ad accogliere una decina di persone senza che si accalchino alle spalle del cliente servito. Nemmeno l’ombra di una sedia, però.
Ma la cosa che convince definitivamente l’utente, diventato cliente, di essere solo un corpo vile sul quale viene ormai esercitata la più spudorata delle speculazioni è il martellante attacco pubblicitario al quale viene sottoposto, nell’attesa del treno, lungo tutto il percorso del binario: a ogni pilastro della piattaforma ci sono ormai schermi che mandano a ripetizione fastidiosissime pubblicità, martellanti e per di più sempre le stesse, come se non fossimo in grado di capire alla prima, né alla seconda e neanche alla terza. Questo è veramente troppo: chi è su quella piattaforma ha pagato per ottenere un servizio e, visto che la logica era questa, nessuno ha il diritto di importunarlo e di arricchirsi vendendone il tempo (che oltretutto è maggiore quanto più il treno è in ritardo: danno, beffa e conflitto d’interessi). Sarebbe giustificato solo se il passeggero viaggiasse gratis, un po’ come la tv commerciale che offre la visione di un programma e in cambio guadagna vendendo spazi pubblicitari. Il bombardamento pubblicitario, ricordiamolo, aumenta lo stress, e certo non abbiamo bisogno di aumentare il livello di aggressività della popolazione, tanto meno quella viaggiante.
Siccome le stazioni sono suolo pubblico (o forse hanno cambiato status anch’esse?), è ora che chi di dovere intervenga a fermare questo abuso. Ma intanto, a chi è toscano, come me, viene in mente, per disperazione, la famosa striscia del Vernacoliere, che aveva come protagonista un impiegato di biblioteca, il quale si rivolgeva al lettore richiedente un libro iniziando il discorso con l’apostrofe “Gentilissimo utente….” e terminandolo con una serie di improperi irriferibili che costringevano il malcapitato alla fuga…

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