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Ma come scrivono i romanzieri italiani? Ovvero: che fine ha fatto la critica militante?

[L’Huffington Post, 29 gennaio 2014]

Nel libro L’importo della ferita e altre storie. Frasi veramente scritte dagli autori italiani contemporanei. Faletti, Moccia, Volo, Pupo e altri casi della narrativa di oggi (Edizioni Clichy) Pippo Russo si prende polemicamente la briga di stroncare alcuni tra i romanzi più venduti e premiati degli ultimi anni, passandone il testo sotto la lente di ingrandimento. L’elenco di sgrammaticature, imprecisioni e incongruenze, ma anche di tirate retoriche, scene grottesche che vorrebbero essere drammatiche, e intrecci improbabili mostra un quadro veramente impietoso della narrativa d’oggi.

Russo fa di mestiere il sociologo e difetta del bagaglio di strumenti tecnici appartenente al critico letterario, chiama ‘analisi linguistica’ ciò che in realtà è un semplice elenco di citazioni e si lascia andare ad alcune ingenuità che un letterato non commetterebbe mai, a cominciare dal fatto di includere nello stesso saggio autori popolari con altri che invece godono di buona fama presso la critica. Ma i materiali che squaderna davanti al lettore sono così impressionanti che non hanno bisogno di particolari strumenti esegetici né dell’ironia, che pure non difetta all’autore, per rivelare lo stato desolante della scrittura. E allora, leggendo tutte di fila le perle trascelte con abnegazione da Russo, viene da chiedersi: come è possibile che quelli del mestiere abbiano lasciato passare pagine così dozzinali e retoriche, e non solo in romanzi di facile consumo dati in pasto al grande pubblico, ma anche in autori che godono di buona stampa?

Non chiamo in causa i giornalisti che scrivono di letteratura, perché il compito di un buon giornalista, anche quando scrive di cultura, rimane prima di tutto quello di informare il lettore in maniera intelligente ed equilibrata, e non quello di validare la bontà di quello che viene proposto. E neanche voglio riferirmi agli interventi, sempre più frequenti, di scrittori che parlano di altri scrittori, i quali spesso scrivono di quanto sono bravi i colleghi per dovere di scuderia. Ma chi fa professione di critico letterario svolge, o dovrebbe invece svolgere, un mestiere diverso.

Guardando alla situazione generale, è un dato di fatto che negli ultimi anni si siano avvicinate pericolosamente la pratica della promozione e la pratica della critica. Il circo Barnum dei premi letterari ha contribuito, forse più di ogni altra cosa, a questa commistione, reclutando tra le file dei giurati molti critici, che finiscono, chissà come, per premiare le scelte più sponsorizzate dalle case editrici. Ma anche lo svilimento della pratica del consulente editoriale, un tempo gloriosa, e la proliferazione delle agenzie letterarie giocano un ruolo non irrilevante. Ora, la promozione è una cosa importante e legittima, perché un libro è prima di tutto un prodotto, al quale hanno lavorato molte persone, il futuro delle quali dipende dalla sua buona riuscita. Se io su un giornale leggo invece un critico, voglio che sia capace di discernere quanto in un romanzo c’è di volontaristico, mal riuscito e velleitario. Mi aspetto che sia in grado di analizzare lo stile e la lingua di un autore, di individuare se vi sia o meno uno scarto rispetto alla comunicazione verbale quotidiana e di distinguere il lavoro profondo che uno scrittore vero fa sulla lingua dalla retorica un tanto al chilo; di capire quanto, nell’autofiction oggi praticata, sia sbrodolamento diaristico, e quanto nella trama ci sia di trito e già visto persino nelle telenovelas; mi aspetto, infine, che si prenda la responsabilità di valutare esteticamente l’oggetto di cui mi parla in quanto opera letteraria e di dirmi se vale la pena che io, lettore affamato di buona letteratura, lo legga oppure no.

Il critico militante dovrebbe tenere bene distinta la propria funzione da quella del sociologo della letteratura, al quale tocca studiare e spiegare anche tutto ciò che va sotto il nome di paraletteratura, inclusi i romanzi che una volta si chiamavano d’appendice.
E’ il sociologo della letteratura che deve studiare perché si vendano centinaia di migliaia di copie di questi testi e dirci in che cosa sono rappresentativi della nostra contemporaneità. Il critico letterario, invece, non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che viene pubblicato, sulla base dell’assunto che la realtà è questa e che il suo compito è quello di interpretarla. Se non tocca ai critici militanti dire che un romanzo è mediocre e non merita affatto di essere letto e studiato come si fa con la buona letteratura, a chi tocca? E non mi riferisco tanto alla pratica della stroncatura, in cui i critici si cimentano talora con gli autori che non sopportano, quanto all’usanza, molto meno praticata, di tener alta l’asticella qualitativa con gli scrittori ai quali guardano con benevolenza. E’ innegabile che la letteratura, oggi, salvo poche voci note, soffra della mancanza di un tale ruolo. Attenzione, non è così per tutte le arti. La critica musicale, per esempio, per quanto malconcia, continua tuttavia a svolgere la sua funzione: se leggo Enrico Girardi sul Corriere, alla fine so se vale la pena di andarmi a vedere un’opera alla Scala oppure no, e raramente rimango delusa. Ma quando leggo le recensioni ai romanzi italiani, quattro volte su cinque mi capita di rimpiangere il tempo e i soldi che ho speso in libreria. Perché succede questo?

A me sembra che la tendenza attuale dei critici – quelli seri, beninteso, che scrivono sulle riviste e sui blog letterari – sia quella di fare, anziché i critici, gli intellettuali: indagando la visione del mondo che emergerebbe dai romanzi che leggono, tendono a interrogarsi sul proprio ruolo e su quello della letteratura in generale, sorvolando sulla debolezza dei testi (e sono ormai parecchi, a loro volta, gli scrittori, muniti di meditata visione del mondo, che rivendicano orgogliosamente la propria vocazione di intellettuale). E quindi giù a scrivere quanto l’opera in questione rappresentativa della crisi dell’uomo contemporaneo, e a delineare i tratti caratteristici della narrativa di oggi, costruendo teorie e tendenze sulla base di romanzi nei quali l’autofiction, ahimè, non ha più nulla del ‘tipico’ lukacsiano, e che non rappresentano se non le mediocri capacità dell’autore. In ciò, spiace dirlo, la critica d’oggi è subalterna all’industria editoriale, perché accetta quasi tutto quello che essa propone come valido. Dimenticando che il primo dovere del critico è quello di discernere di cosa vale la pena occuparsi, perché la critica militante, rispetto allo studio delle opere del passato, non ha dalla sua l’azione selettiva, ancorché spietata e ingrata, del tempo e della tradizione. E solo dopo che si sarà fatto questo lavoro di scrematura – pochi sono in grado di farlo, è vero, perché richiede sensibilità letteraria, orecchio, fiuto, e grande conoscenza degli strumenti con cui la letteratura si esprime -, che oggi appare davvero insufficiente, si potrà con frutto duraturo interpretare la contemporaneità letteraria e farne storia.

Vi sembra riduttivo? Autoritario? Reazionario? Può darsi, ma almeno ci sarebbe un’incidenza concreta della critica sul processo culturale in corso. E si riallaccerebbe un contatto tra l’intellettuale e il popolo, cosa, se non rivoluzionaria, di certo molto progressiva. Invece, in questo modo, i dibattiti e i convegni dei giovani critici, che si interrogano sulla necessità o meno del proprio impegno politico di intellettuali, girano in un loop che non arriva al lettore: quello che, armato di buona volontà, varca la soglia della libreria e vorrebbe sapere per che cosa vale la pena spendere i venti euro che ha risparmiato, e non lo sa, perché dalla fascetta di ogni romanzo uno stimato critico glielo consiglia come il migliore dell’anno, e nei supplementi culturali dei grandi quotidiani ha letto, salvo rari casi, recensioni accattivanti. E così l’industria culturale continua a marciare per conto suo, sommergendo l’onesto lettore di prodotti rozzi fatti passare per opere d’arte, nonostante della pessima qualità siano consapevoli «l’ottanta per cento dei critici, anche se per vari motivi spesso si limitano a mugugnare in privato o a rimpiangere i bei tempi passati, il cinquanta per cento degli addetti nelle case editrici, il trenta per cento dei librai e il venti per cento dei giornalisti culturali» (è uno sfogo di Giacomo Sartori, Nazione Indiana, 14 ottobre 2013).

Negli ultimi anni sono stati in molti a chiedersi a che servano gli intellettuali e se siano davvero necessari al buon funzionamento della società post-ideologica di oggi. Non voglio dar loro ragione, ma una cosa è sicura: è inutile fare gli intellettuali, perché, parafrasando il grande Totò del “Signori si nasce”, l’intellettuale non si fa, si è. E lo si è – pochi lo sono – se ciò che si scrive, sia esso storia medievale, come nel caso di Peter Brown, o costume contemporaneo, come Gore Vidal, ha un livello qualitativo talmente alto che arriva ad aggredire la nostra coscienza del mondo, non perché ci si sforza, in prose di romanzi o di teorie letterarie, di costruire weltanschauungen della post-postmodernità. Meno intellettuali e più critici, per cortesia. Altrimenti, continuerà a capitare ancora, come nella favola dei Vestiti dell’imperatore, che sia il più ingenuo fanciullo del regno ad alzarsi e dirci che il re è nudo.

A proposito dell’”Appello per le scienze umane” di Asor Rosa, Esposito e Galli della Loggia. Considerazioni sull’orgoglio e sull’inutilità degli studi umanistici
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