[«Generazione Goldrake», 7 maggio 2013]
Incipit di romanzo à paraître
facit indignatio versum
Eccoci, siamo noi, siamo gli Actarus e le Venusie trent’anni dopo lo sbarco sulla Terra in seguito alla distruzione del pianeta Fleed per opera del malvagio re Vega. Attenzione: non Mazinga, non Jeeg robot d’acciaio, perché quelle sono imitazioni prive di stile venute dopo – e come diceva Oscar Wilde, nelle cose importanti della vita è lo stile che conta, non la verità -, proprio Goldrake, che è stato il primo (1). E siccome le esperienze dell’infanzia segnano per la vita, Goldrake ci accompagna da allora ogni giorno ricordandoci che il nostro dovere è lottare per l’umanità e qualunque altra occupazione è misera e indegna a confronto. Actarus ci mostrava il valore del sacrificio delle ambizioni personali per servire un ideale più grande di noi: la salvezza del genere umano. Siamo cresciuti cercando di imitare quel modello, abbiamo studiato, abbiamo rinunciato alle intemperanze della gioventù per essere all’altezza del nostro compito.
Intanto, però, gli ideali si sgretolavano a uno a uno intorno a noi.
Noi siamo quelli fregati dalla Storia. Alle elementari ci insegnavano il mito della Resistenza. Ci proiettavano I Sette fratelli Cervi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio e il più giovane e commovente, Ettore. Sapete una cosa? Ci abbiamo creduto. Ci abbiamo creduto davvero, alla libertà, alla giustizia e all’uguaglianza. All’internazionalismo e alla pace. Al pomeriggio guardavamo Furia cavallo del West, identificandoci per forza di cose con i cow-boys, ma facendo il tifo per gli Indiani, perché già a sette anni sapevamo che la ragione era dalla loro parte. Ma Furia, quando lo propinavano a noi, era vecchio già di vent’anni, ed era pure in bianco e nero. Una decina d’anni et voila, iniziava la televisione a colori, e poi la tv commerciale e i nostri fratelli e sorelle minori iniziavano a desiderare gli astucci e i vestiti firmati. Almeno loro, beati, sono scampati ai Grandi Ideali. Hanno imparato da piccoli a nuotare nel mare del consumismo e della precarietà, e forse si salveranno. Sono attrezzati per farlo. Noi, la cui coscienza di fanciulli è stata plasmata da Fratello sole, sorella luna, non potevamo, neppure sforzandoci, riuscire delle fashion victims, e siamo stati travolti dallo tsunami degli anni di fango.
Noi che prima dei trent’anni eravamo pronti a prenderci sulle spalle grandi responsabilità, noi che abbiamo rinunciato ai colpi di testa della giovinezza per essere pronti a proseguire il lavoro là dove i nostri padri l’avevano lasciato, quando siamo arrivati ai quaranta e le responsabilità non sono arrivate, le magnanime imprese non ci sono più, o quanto meno non hanno bisogno di noi, ci guardiamo intorno disorientati. Noi avevamo un patto con la società,
eravamo i figli desiderati, accuditi, cresciuti con amore perché nostro fosse il regno dei cieli e ora che siamo adulti e l’impronta che lasciamo nel mondo si riduce al battito d’ali di una farfalla, guardiamo angosciati le nostre madri e diciamo loro: “Perdonateci, perché non siamo capaci di compiere quello per cui ci avete allevato”.
Tanto per farvi capire subito di che cosa stiamo parlando, noi non vorremmo affatto una vita come la nostra (2). Tanto per farvi capire subito di che cosa stiamo parlando, non abbiamo figli, e di solito neanche esperienze matrimoniali andate a male. Quelli di noi che si sono sposati, dopo molti anni di frequentazione, dopo aver guardato ben bene la persona che si sono trovati accanto, hanno tutta l’intenzione di rimanerlo e non ci pensano neanche ad andare a scopare in giro per il mondo. Gli altri, dopo alcuni amori finiti male, quando si presenta qualcuno di papabile, lo scrutano ben bene, lo annusano un po’, e poi di solito decidono che non è cosa, che è molto meglio andarsene avanti da soli per la propria strada. Sì, perché per noi, se permettete, la famiglia è una cosa seria. La famiglia è il valore più importante. Appunto per questo ci asteniamo da qualunque avventato tentativo che minacci di riuscire maldestro e rimaniamo visceralmente legati alla nostra famiglia d’origine. Per compensare, ci circondiamo di amici.
Ma è inutile negarlo, la nostra sofferenza è stata atroce. Tenacemente attaccati agli Ideali che ci sono stati infusi da piccoli, man mano che ad uno ad uno si sono infranti abbiamo ripiegato sulle retrovie, senza mai alzare la bandiera della resa. Perché non siamo, non potremo mai essere qualunquisti. Siamo come i ragazzi del ’99, sacrificati sulla linea del Piave. Ma loro hanno fatto l’Italia, noi scriviamo poesie. Al dolore della scomparsa degli ideali si è aggiunta l’onta di scoprirci presi in giro da quelli che ce li avevano insegnati. Abbiamo scoperto nei nostri maestri un cinismo mostruoso, un trasformismo degno di Jim Carrey in The mask. Prova ne sia che non uno di loro sì è suicidato al venir meno di quegli ideali, non uno è impazzito. Eppure ci avevano insegnato che è questo che succede quando le rivoluzioni falliscono. Vincenzo Cuoco ha perso la sanità mentale, e con essa la sua lucidità di storico, dopo il ritorno dei Borbone a Napoli. Francesco Lomonaco si è gettato nel Naviglio pavese. I nostri maestri sono ancora tutti lì, ben piazzati sulle loro sedie di dirigenti di partito e di professori universitari. Hanno fatto di tutto, hanno pubblicato romanzi, guidato cortei, fondato premi letterari, si sono persino incatenati, e poi il giorno dopo si sono di nuovo seduti sulle loro comode poltrone.
Bravi davvero quelli del Sessantotto! Hanno praticato l’amore libero, mettendo al mondo un mare di figli dentro e fuori dal matrimonio (dei matrimoni, per meglio dire). A noi però hanno insegnato a usare la pillola. È stata una gran bella battaglia quella per avere i corsi di educazione sessuale al Liceo, la contraccezione, la profilassi. Che bello il progresso dell’umanità. Recentemente ho ascoltato la sicumera con cui una protagonista di quegli anni commiserava la mia generazione: “Si affannano a quarant’anni a mettere al mondo figli ad ogni costo, programmandoli a tavolino. Invece i nostri sono nati dall’incoscienza della giovinezza. Io li chiamo i figli dell’amore”. Il mio moto d’odio è stato feroce. Vi odiamo, cari, perché a noi avete insegnato a essere responsabili, a praticare la maternità consapevole, e adesso ci disprezzate perché alla soglia dei quarant’anni tremiamo al pensiero di diventare genitori a nostra volta. Ci avete insegnato a fare prevenzione, e adesso vi prendete gioco di noi perché facciamo l’amore con il condom. Ci avete insegnato il valore della lealtà e della fiducia e adesso ci deridete perché non sappiamo tradire il nostro compagno con la leggerezza con cui lo fate voi. E’ vero, ci è sempre mancata l’insensatezza della gioventù che ti fa buttare a capofitto negli errori della vita. Ci è sempre mancato il senso della trasgressione, ma non per paura, sapete, soltanto perché sapevamo che la trasgressione è una perdita di tempo, uno sciocco intoppo nella fase della crescita, e abbiamo scelto di fare tesoro della saggezza dei nostri genitori, dei nostri maestri per crescere prima e meglio. Vogliamo parlare delle droghe? Sia detto una volta per tutte, noi non abbiamo mai fumato spinelli. Qualcuno lo dica ai politicanti che fumavano “senza inalare”, che noi non sappiamo che farcene delle droghe. E mai neanche abbiamo provato il desiderio farne uso, perché nell’adolescenza, noi, eravamo già adulti. A noi è stato insegnato che il progresso dell’umanità avanza tra i lumi della ragione e sappiamo quanto è difettivo sillogismo pensare di trovare la luce ottenebrando la mente. E già che ci siamo, qualcuno dica agli oscurantisti che i figli dell’Illuminismo non sono affatto privi di valori: noi siamo pieni di valori, ne siamo stracolmi, perché abbiamo dovuto toglierli dai loro contenitori inceneriti dal napalm e non avevamo altro posto dove metterli se non dentro di noi.
Vogliamo parlare di Gesù? Gesù di Nazareth, il figlio dell’uomo. Quello che è morto in croce, dopo aver detto “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Quello che ha cacciato i sacerdoti dal tempio chiamandoli “sepolcri imbiancati”. Quello che ha detto “E’ più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio”. I catechisti degli anni Settanta – sui quali mi sa tanto, cari, che avreste dovuto esercitare un controllo più rigido, finché eravate in tempo – quando eravamo alle elementari ci insegnavano che Dio è amore e ci leggevano passi delle Scritture per mostrarci come il Dio del Vangelo, amorevole e compassionevole, fosse tanto superiore al Dio della Bibbia, crudele e vendicativo, e quel Gesù che amavamo da bambini non è mai uscito dai nostri cuori. Sono desolata, ma non si può rimediare al danno fatto dal Concilio Vaticano II. A scuola ci spiegavano che la Restaurazione aveva rimesso sul trono dei vari Stati europei i rampolli delle vecchie dinastie, ma le idee egualitarie diffuse dalla Rivoluzione francese non poterono più essere cancellate (mai più sarebbe stato accettabile che la carrozza del nobile schiacciasse impunemente il misero pedone!): ebbene, il cattolicesimo degli anni Settanta è entrato nei nostri cuori, e non sarete capaci di estirparlo. Abbiamo preso il meglio anche da voi e – temo – vostro malgrado. Noi siamo le donne e gli uomini di buona volontà. Quelli che conoscono la pietà umana. Quelli a cui Gesù e i vostri catechisti hanno insegnato la carità. Ed è proprio perché ci avete insegnato che Dio è amore e che ciò che salva l’uomo è la carità che oggi noi sappiamo per certo che Dio punirà tutti coloro che si sono resi responsabili dell’oppressione del prossimo, tutti quelli che in nome della dottrina hanno mortificato la carne viva degli uomini.
Sapete che cosa ho pensato quando è morta Eluana? Ho pensato che Dio è più grande di tutti i suoi ministri. Se l’è portata via con sé un secondo prima che le facessero l’ultimo affronto, quello di emanare un decreto legge per obbligarla a restare in vita. Fino a quel momento la crudeltà, nella storia umana, si era esercitata nell’emanare decreti di condanna a morte, ma quel giorno – ricordatevelo, generazioni future! – quel giorno l’uomo arrivò all’abominio supremo di condannare a vivere. Quel giorno un parlamentare della Repubblica (che il suo nome sia dimenticato in eterno) fu ripreso dai telegiornali mentre gridava “Assassini! Assassini” a quanti avevano contribuito all’attuazione della volontà di Eluana. Che quel parlamentare avesse trascorso la prima metà della propria vita tra le file dei radicali, a gridare contro il fascio-clero-comuni-statalismo dei partiti, non è che un esempio paradigmatico della parabola rovinosa percorsa dalla società italiana in questi decenni.
Quando poi siamo diventati agnostici – sui quattordici anni, naturalmente, quando la mente dei fanciulli è pronta per spiccare il volo e iniziare ad esercitare il pensiero critico – abbiamo pianto, perché abbiamo capito – era all’improvviso così evidente! – che non siamo che granelli di polvere sparsi nel vento dell’universo, e che una volta disaggregati i nostri pochi atomi niente sarebbe restato di noi. Allora i nostri insegnanti del ginnasio – comunisti anche loro, manco a dirlo – ci hanno confortato amorevolmente, dicendoci che l’umanità ha in se stessa tutti quei valori che avevamo imparato nella religione, e contro il suicidio e la morte valevano ancora le parole di Plotino a Porfirio, che a dare un senso alla vita di fronte all’universo rimaneva, crollate tutte le illusioni, l’amore che lega gli uomini tra loro. Ma sbagliate a pensare di noi che, siccome crediamo nell’uomo, peccheremo di ubris. Eh no, abbiamo letto Faust, miei cari, e lo sappiamo che non bisogna fare patti col diavolo: non venderemo la nostra anima per vivere in eterno. A differenza di voi, noi non abbiamo deliri di onnipotenza. Accettiamo la vecchiaia e accettiamo la morte.
Se volete trovare un altro colpevole, oltre ai catechisti degli anni Settanta, mi permetto di suggerirvi la scuola pubblica. Noi, Generazione Goldrake, siamo il prodotto dell’istruzione pubblica obbligatoria e gratuita. Ci siamo seduti sui banchi di scuola, a sei anni, consapevoli che l’istruzione era un nostro diritto. Ma attenzione, per noi la cultura non era uno strumento per salire sulla scala sociale. Il sapere in sé e per sé, e non nel suo aspetto strumentale, era il valore da coltivare perché l’umanità potesse progredire. Questo mi insegnava mio padre, operaio metalmeccanico con la licenza elementare, e quando tornavo a casa da scuola, il pomeriggio, nessuno si sognava di fare rumore né di guardare la televisione a volume alto, mentre stavo studiando. Adesso assistiamo impotenti alle esternazioni di ministri che, mangiando il freudiano salmone con la maionese (il quale era pagato da soldi altrui, è bene non dimenticarlo) alla buvette di Montecitorio ci dicono che con la cultura non si mangia e ci deridono invitandoci a farci un panino con la Divina Commedia. Qualcuno ha imbrogliato qualcosa, in questo maledetto Paese. E, purtroppo per voi, stiamo cominciando a capire chi è stato.
Note
1. L’autrice è evidentemente in errore: Goldrake è stato il primo ad apparire in Italia, ma è solo il terzo di una trilogia, dopo Mazinga Z e il Grande Mazinger (NdR)
2. I critici più avveduti propendono per leggere, in questa perentoria affermazione, un riferimento polemico a un romanzetto di qualche anno fa intitolato Voglio una vita come la mia (NdR).