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Morire in Antartide da precario

[L’Huffington Post, 20 gennaio 2014]

Luigi Michaud era un biologo marino. E’ morto il 17 gennaio in Antartide, nella base italiana “Mario Zucchelli”, colto da malore nel corso di un’immersione nell’acqua gelata, mentre raccoglieva campioni da analizzare. Luigi Michaud aveva quarant’anni, una moglie e due figli, ed era un lavoratore precario: era assegnista di ricerca all’Università di Messina.

Un assegnista di ricerca – parlo con cognizione di causa perché anch’io lo sono stata – è titolare di un assegno mensile per fare ricerca su un determinato argomento. Non è assunto, neanche a tempo determinato, dall’istituzione per cui lavora e dunque non ha le tutele previste da un’assunzione regolare. Un assegno di ricerca può durare un anno, due anni; può essere rinnovato. Poi arrivederci e grazie.

Cosa c’è che non va? Non va che un Paese chieda a un quarantenne di andare a svolgere un lavoro di alta specializzazione in un ambiente dalle condizioni estreme senza offrirgli un adeguato inquadramento professionale. Adesso c’è una vedova e ci sono degli orfani: quali tutele, anche e soprattutto economiche, sono previste per loro?

Luigi è un morto del lavoro e della ricerca. Chissà quante volte un conoscente o un lontano parente gli avrà detto: “Ma perché insisti a voler fare quel mestiere? Trovati un posto sicuro, vicino a casa e alla tua famiglia”. La mia nonna, che mi voleva un bene dell’anima, non si capacitava, nei miei anni di precariato, che io mi ostinassi a ‘ricercare la letteratura’, invece di seguire le orme di una cugina assunta in giovane età come postina (lo diceva molti anni fa, beninteso, perché, se sapesse quanto è difficile fare il postino oggi, certamente non lo direbbe più). Ma se Luigi era in Antartide, possiamo immaginare che chi gli era più vicino, oltre a conoscere la sua competenza, comprendesse la passione che lo spingeva ad andare fin laggiù.

Luigi Michaud non era un’eccezione: l’età media alla quale si diventa ricercatori, in Italia, è di 38 anni. Mi correggo: era, perché la riforma Gelmini ha soppresso la figura del ricercatore universitario, sostituendola con quella del ricercatore a tempo determinato. Di fatto ha istituzionalizzato la precarietà. Il modello è stato quello americano della tenure, che prevede un periodo di qualche anno come assistant professor, al termine del quale o si viene assunti stabilmente come professori o si esce dall’Università. Funziona, se lo si fa a 25 anni, al massimo a 30. Averlo introdotto in un sistema universitario in cui prima le assunzioni dissennate ope legis e poi i tagli continui alle risorse finanziarie hanno prodotto una massa di quarantenni precari, è stato un colpo di grazia. L’Italia – e non solo nell’ambito della ricerca – ha già bruciato una generazione. Per questo non c’è tempo da perdere e bisogna agire subito stanziando delle risorse per rimettere in moto il circuito: forse siamo ancora in tempo a non bruciare la prossima.

Ma come scrivono i romanzieri italiani? Ovvero: che fine ha fatto la critica militante?
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