[L’Huffington Post, 23 maggio 2014]
Lunedì 19 maggio alla Scala è andato in scena l’ultimo dei concerti di Maurizio Pollini dedicati nella stagione alle sonate di Beethoven. Immaginate il teatro pieno, i palchi completi e le gallerie zeppe di gente che si sporgeva trepidando nell’attesa di ascoltare il tocco leggero del grande pianista. “Prima, però, bisogna sopportare la penitenza”, commentavano vicino a me. Già, perché, come negli appuntamenti precedenti, una parte del concerto era dedicata alla musica contemporanea.
In programma “…zwei Gefühle”, Musik mit Leonardo di Helmut Lachenmann. Un grande evento, invero, perché era prevista, nel ruolo della voce recitante, la presenza stessa del Maestro. E così sono iniziati trenta minuti di guizzi, strofinii, note strappate, mormorii e rumori durante i quali il grosso del pubblico si è messo le mani nei capelli e si è allungato sulle sedie, sconfortato.
Nel momento esatto della fine del pezzo, chiaro e secco come una saetta, si è levato dalle file della platea un sonoro “Vaffanculo” all’indirizzo del compositore. Poi sono scrosciati gli applausi, abbondanti, ma anche i buh non erano da meno. E infine, alla terza uscita sul palco, dal loggione un altro grido: “Vai alla Baggina!”
Difficile, di fronte a un simile spettacolo, non ricordare le parole di Baricco, quando nell’Anima di Hegel e le mucche del Wisconsin, sbeffeggiando la musica contemporanea, osservava che nemmeno il terrorismo culturale degli anni Sessanta e Settanta era riuscito a farla amare, e che in fondo il mondo della musica colta la tiene in piedi solo perché vi trova l’alibi di una propria apparente partecipazione al presente.
Di chi è la colpa di quanto è accaduto, del pubblico della Scala, notoriamente convenzionale e ancorato all’Ottocento verdiano o degli organizzatori, che avrebbero dovuto prevedere, e quindi evitare una simile incresciosa situazione? La formula di somministrare agli ascoltatori pezzi ostici contemporanei accoppiandoli a opere molto amate alle quali si corre come a uno zuccherino è in voga da tempo ormai, perché, si dice negli ambienti musicali, è questo l’unico modo per farle ascoltare al grosso pubblico, vale a dire: per forza.
Il fatto che non ci sia nessun fondamento estetico a giustificare un’accoppiata simile, sembra non inquietare nessuno.
Ora io ascolto, e talvolta con piacere, musica contemporanea, e Lachenmann ho potuto apprezzarlo largamente nella rassegna che il festival Milano Musica gli ha dedicato tre anni fa. Ma non mi ha mai colto il desiderio di ascoltarlo a quindici minuti di distanza da Beethoven, né prima né dopo.
Forse è il caso di riflettere su questo episodio, che non ha giovato a nessuno, e di trovare nuove strategie per il futuro. Forse è opportuno smetterla con i programmi di rieducazione a ogni costo dell’orecchio di chi, con ogni evidenza, non intende affatto essere rieducato.
Se davvero crede nella musica contemporanea, un ente come la Scala dovrebbe avere il coraggio di proporre nel corso della stagione un piccolo ciclo di concerti ad essa dedicati, e pazienza se non si riuscirà a riempire il teatro. Meglio la sola platea popolata di gente venuta con un interesse reale che quattro ordini di palchi di onesto pubblico pagante costretto, suo malgrado, a sopportare un Lachenmann ridotto a support band di Beethoven. Lasciando perdere i grandi nomi, ci sono molti giovani musicisti in grado di garantire un ottimo livello di esecuzione, e forse si potrebbe anche ridurre il prezzo del biglietto attraendo fasce di ascoltatori normalmente escluse. In fondo, non è così vero che la musica contemporanea non abbia un pubblico; è anche una questione di tempi e modi della fruizione: Ruggero Laganà ha fatto il pienone, pochi giorni fa, alla Sala da Ballo della Galleria d’Arte Moderna, nell’ambito di Pianocitymilano, suonando le sue 24 fughe su temi impossibili.