[«L’Huffington Post», 26 giugno 2015]
Quella domenica d’estate me la ricordo bene. Era il 17 luglio 1988 e fui svegliata al mattino presto dallo squillo insistente del telefono. Era la mia amica Laura, che mi svegliava per darmi l’allarme: “È scoppiata la Farmoplant, fuggite tutti al più presto.” In casa mia dormivano ancora tutti e io rimasi un lungo momento con in mano la cornetta che ormai faceva “tu-tu-tuuu”. Sapevo bene che cosa significava. Da anni, ormai, a scuola facevamo scioperi e cortei per chiedere la chiusura di quella fabbrica, che nella zona industriale di Massa lavorava prodotti chimici tossici. Nessuno sapeva con certezza quali sostanze vi fossero trattate – rogor, cidial – ma sapevamo che, se si fosse verificato un incidente, avremmo rischiato di diventare una nuova Seveso.
In poco tempo tutta la mia famiglia fu in macchina, lanciata sull’Aurelia per raggiungere il casello autostradale di Forte dei Marmi (quello di Massa fu escluso immediatamente, trovandosi nei pressi della fabbrica), e da lì via veloci, ma verso dove? La cosa migliore che venne in mente ai miei fu lo zoo di Pistoia, forse perché avevamo in macchina mia sorella ancora piccola, e sembrò loro un modo per distrarci dallo spavento. Ogni famiglia di Massa e Carrara fuggì quel giorno verso una destinazione diversa, e ancora oggi, quando ci si trova fra amici, capita di confrontare le diverse mete raggiunte, legate alla geografia degli affetti e delle abitudini. Da Pistoia, poiché ancora non avevamo nessuna notizia rassicurante, raggiungemmo Firenze, e fummo ospiti di amici. Nessuno sapeva, allora, le conseguenze reali che poteva avere il disastro, e mentre i miei tornarono a casa l’indomani, io e mia sorella fummo lasciate là, a Firenze, per due settimane.
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Ricordo, di quei giorni, che non sapevo assolutamente che fare, ma scoprii ben presto che, non avendo ancora diciott’anni, potevo girare gratis per i musei. Il caldo era soffocante e i musei erano freschi, così passai il mio tempo visitando e rivisitando gli Uffizi, le Cappelle Medicee, la Galleria dell’Accademia e quella d’arte moderna. Ancora oggi, ogni volta che mi capita di andare a Firenze d’estate e vengo sommersa dalla bellezza della città, riaffiora in me qualcosa di quel trauma e si mischiano, inevitabilmente, l’aria calda dell’asfalto, il piacere estetico e il senso di disfacimento della catastrofe. In fondo, che cosa c’è di più schiettamente italiano dell’intreccio tra arte e devastazione del territorio? Siamo il Paese della bellezza e della dissoluzione.
Questo trauma collettivo delle popolazioni apuane è oggi raccontato nel libro La terra bianca. Marmo, chimica e altri disastri (Laterza) di Giulio Milani. L’autore, uno di noi ragazzi di allora, è oggi valente scrittore di narrativa e ha saputo imbastire un magnifico libro-inchiesta su quella vicenda, raccogliendo testimonianze inedite e ricostruendo la storia crudele del polo industriale della provincia di Massa Carrara.
È una denuncia scioccante quella che esce dal libro, perché, forse per la prima volta, viene composto un quadro d’insieme di tutte le vicende che si sono consumate nel nostro polo industriale. Milani racconta la storia della Farmoplant, dell’Enichem, dell’inceneritore Lugar, che ha bruciato per decenni rifiuti tossici provenienti dall’estero, della Rumianca, la “fabbrica dei veleni”, chiusa nel 1984, che ha portato alla morte per tumore di quasi tutti gli operai che vi hanno lavorato, e delle altre aziende che hanno dato pane e veleno alla popolazione, a cominciare dall’industria del marmo. E così emergono la pervicace frantumazione dei giacimenti marmiferi delle Apuane, l’inquinamento delle falde acquifere, le bonifiche promesse e mai attuate e la recente scoperta di decine di discariche abusive, che nessuno ancora sa cosa nascondano, nella piana tra Massa e Carrara.
Su questo sfondo, nel racconto di Giulio Milani – che scrive con una bella prosa da narratore, mai retorica e mai cronachistica, disegnando come personaggi letterari quelle che invece sono persone vere – prendono vita le lotte della popolazione per ottenere la chiusura delle fabbriche inquinanti, i maneggi del ceto politico che ha governato la provincia, sordo e sempre disposto a barattare salute e territorio con la promessa di posti di lavoro e chi sa cos’altro, e persino i legami con il business dei rifiuti gestito dalla camorra e dalla ‘ndrangheta. Per decenni, in questa terra, è stato perpetrato il ricatto che costringe a scegliere tra la fame e la morte. Secondo studi recenti, la mortalità per tumore nella provincia di Massa Carrara è del 12 % superiore alla media toscana.
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Tutti in Italia conoscono la tragedia dell’acciaio a Taranto e dell’amianto a Casale Monferrato, ma pochi, temo, sanno che cosa è stato fatto alla provincia apuana. Era una terra splendida, che ha incantato Pascoli e D’Annunzio, con potenzialità infinite, e oggi è un paesaggio devastato, un litorale sfruttato fino all’ultimo metro di sabbia, una montagna dilaniata, un territorio depresso, porta d’ingresso del traffico di droga che arriva via mare, con un tasso di disoccupazione giovanile del 64 per cento, e infrastrutture vecchie e inadeguate alle necessità di oggi.
Un esempio? Scrivo queste parole su un treno regionale che da Livorno arriva a Milano, due volte al giorno, la mattina presto e la sera, e attraversa le Apuane lungo la linea della Cisa. Da quando ero bambina sento parlare i nostri amministratori del progetto di rinnovare la linea ferroviaria, ma qui si viaggia ancora a binario unico, e non si trovano i soldi neppure per sostituire i vecchissimi treni regionali, ormai veri e propri carri bestiame, ferraglia cadente a pezzi, sporchi di gromma antica, imbrattati da sgorbi di vernice, cigolanti, rumorosi al punto che servono i tappi per le orecchie a chi è costretto a starci quattro ore, con il locomotore che si rompe a ogni nevicata d’inverno, con le porte che non si chiudono, i bagni che non ci sono, l’aria condizionata sconosciuta e le facce tristi di pendolari e residenti, negletta prole di una regione che vanta di essere stata culla della civiltà rinascimentale e prima ad abolire la pena di morte, nel 1786.
La Toscana ha provveduto, in questi anni, a dotare di decine di treni nuovi le linee che collegano le città importanti della regione, ma si è bellamente disinteressata di questa provincia periferica, che, per parte sua, non ha mai generato, negli ultimi decenni, politici di alto livello che ne avessero veramente a cuore le sorti. Sventurata la terra che non è amata dai suoi.