[«La Rivista dei Libri», n. 9, settembre 1998]
Si scuserà il cedimento del titolo all’irresistibile ricordo cinematografico, che non vuole essere segno di irriverenza, bensì ammissione di imbarazzo di fronte alla scabrosità dell’argomento, al pari di quello, più annoso, del noto dibattito di Berlinguer, ti voglio bene (“Pole la donna uguagliassi all’omo?”) di cui appunto, tra remore e condizionamenti irriflessi, pure bisognava parlare. E parla, infatti, superando le reticenze di molti, l’articolo di Marco Santagata (“la Rivista dei Libri”, maggio 1998), che, partendo dai risultati dei test della Facoltà di Lettere di Milano, prende atto della scarsa dimestichezza delle matricole con la lingua della letteratura, si interroga sui possibili canali di trasmissione e sull’effettiva fruibilità del patrimonio letterario, e arriva fino a ipotizzare, provocatoriamente, l’uso di traduzioni di Machiavelli in italiano moderno.
Innanzitutto, è bene che nel grande coro sulla decadenza della cultura e nella fattispecie sulla diminuita familiarità dei giovani con la letteratura, qualcuno ricordi l’aspetto positivo che si è avuto parallelamente con l’estendersi dell’uso della lingua italiana a fasce di persone che prima non parlavano che dialetto. Come anche è giusto domandarsi se veramente siamo convinti che il compito primario della scuola sia quello di insegnare il significato di “inclito” e “quadrilustre” o non piuttosto quello di mettere la totalità degli studenti in grado di comprendere e di utilizzare attivamente con competenza e duttilità la lingua di comunicazione.
E spero che sia tranquillizzante il fatto che queste osservazioni vengano da chi, per storia personale e per mestiere è, come si usa dire, persona non sospetta, cioè non suscettibile dell’accusa di lesa maestà nei confronti dei classici, trattandosi dell’autore di un commento a Petrarca che resterà (fino a quando, dico, qualcuno non ci fornirà la traduzione del Canzoniere in lingua corrente). Niente di scandaloso, in sé, nell’idea di una traduzione dei classici. Era un’esigenza sentita già da Don Milani, quando invitava a mettere mano a un’edizione dei Promessi sposi che sostituisse le espressioni in disuso (“in treno da caccia” e “di conserva”) in modo che gli studenti, leggendoli, apprendessero un po’ di italiano vivo, invece di una lingua morta (non scherzava, Don Milani, minacciava di mandare in Siberia i professori che avessero storto il naso!). E non è difficile fare la profezia che in un futuro, non so dire quanto lontano, si verificherà, come già accade altrove. Ma Santagata affronta una questione culturale complessa, che credo non fittizia, e i termini in cui la pone mi sembrano in parte condivisibili, in parte suscettibili di discussione. Perciò proverò a sviluppare il ragionamento proposto seguendo alcune riflessioni nate in margine alla lettura.
1. E’ tempo di rendersi conto, o meglio, di fare i conti col fatto che la lingua letteraria non è più sentita come lingua tout-court dalle classi colte italiane, ma è ormai diventata un linguaggio settoriale, di contro alla lingua standard di comunicazione usata, grazie al cielo e agli sforzi fatti nella battaglia per l’alfabetizzazione, dalla maggioranza degli italiani. Linguaggio settoriale, al pari di quello della medicina o del diritto. Perché mi pare che tutto concorra a dimostrarci che “merito quadrilustre” è espressione tecnica né più né meno che “negozio giuridico” e “tasso di sconto”. Ma credo che accettare questo imponga di andare oltre, di arrivare finalmente a rilevare l’esistenza di una incongruenza o meglio di una schizofrenia culturale: nessuno pare infatti gridare allo scandalo, se una persona ‘colta’ ignora persino i fondamenti, per limitarci a due campi essenziali nel funzionamento della nostra società, del diritto o dell’economia (si provi a chiedere alle matricole milanesi che cosa significhi “tasso di sconto”). E allora da porci mi sembra piuttosto questa: è un buon cittadino quello che sa leggere Parini ma non è in grado di capire il testo della Bicamerale per verificare se quello che ne scrivono i giornali corrisponda al vero? E do per scontato ciò che forse altri vorrà discutere, ossia che il compito della scuola nella Repubblica italiana debba essere quello di mettere ciascuno nelle condizioni di svolgere appieno le proprie funzioni di cittadino.
E’ qui, credo, che non deve mancare di coraggio la “rivoluzione copernicana” della scuola, nel porre cioè al centro della formazione un nucleo di saperi di base che sfugga alla sorte di produrre un cittadino dimidiato, come è successo fino a oggi anche nella migliore delle ipotesi, quella in cui dopo la scuola media si fosse riusciti a proseguire gli studi, perché di fatto risultavano precluse, a seconda dei casi, la via alle culture classiche e alla filosofia (relegate nei licei) o quella all’economia e al diritto (relegate nelle scuole tecniche), e mi astengo, per non uscire dal tema, dal parlare delle culture scientifiche.
Ora, il possesso pieno di un linguaggio tecnico è per definizione patrimonio della ristretta cerchia di addetti ai lavori. Ciò non vuol dire che un livello minimo di conoscenza non debba appartenere alla massa dei non addetti, anzi, in una società complessa come la nostra diventa necessario per esercitare le attività minime della vita quotidiana, che credo di possano con ragionevolezza individuare nel firmare consapevolmente l’assicurazione dell’automobile come nel leggersi un buon classico la sera. Ho la speranza che il famoso documento dei “saggi”, là dove dice di voler porre al centro degli studi la lingua e non più la letteratura, voglia intendere questo, cioè fornire ai giovani una competenza parlata e scritta della lingua italiana di comunicazione, allargata ai fondamenti dei linguaggi tecnici indispensabili a orientarsi e a trovare la propria strada nel mondo, da quello informatico a quello letterario, appunto. In altre parole, non mi sembra utopistico aspettarsi che al termine della scuola dell’obbligo (che speriamo di vedere prima o poi innalzato ai 18 anni) i cittadini italiani siano in grado di leggere e comprendere i Promessi sposi così come la Carta costituzionale.
2. Solo in questo contesto di riduzione, se vogliamo, del campo di “operatività” della letteratura è possibile, a mio parere, rilanciare il valore specifico che essa deve avere sia nella formazione individuale che come patrimonio culturale storico della nazione. E in quest’ambito si può provare a proporre lo scioglimento della questione della lingua. Ho insistito sul fattore della tecnicità perché mi sembra che solo in questo modo si possa uscire dal vicolo cieco del gap linguistico denunciato da Santagata. Del resto, la lingua letteraria italiana si è potuta mantenere stabile proprio perché è stata usata come lingua tecnica della letteratura da scrittori anche molto vicini a noi nel tempo. Voglio dire, non ritendo che debba essere ormai considerata come un’altra lingua, mi pare anzi che ne manchino gli elementi fondamentali, prima fra tutti l’incomprensibilità. Non credo, infatti, che sia del tutto lecito assimilare la difficoltà di comprensione del testo letterario alla “frattura linguistica”. O piuttosto, se è vero che c’è questo aspetto, sicuramente non è il solo.
Per capire meglio ho chiesto aiuto a mio cugino Giacomo, quattordicenne, che frequenta la prima classe dell’Istituto Tecnico. E’ un ragazzino sveglio, suona a meraviglia il clarinetto e la fisarmonica, sa smontare e rimontare uno scooter, ma non ha mai mostrato attitudini particolari né per le lingue né per la letteratura. Si è prestato di buon grado all’esperimento, leggendo una novella del Decameron, la quarta della sesta giornata, quella amena e famosa di Chichibio, scelta per la brevità e per la non eccessiva complessità sintattica. L’ha letta due volte, impiegando meno di mezz’ora, dopo di che si è dimostrato in grado di fare una parafrasi letterale del testo quasi completamente corretta tranne pochi passi decisamente ardui. Le parole di cui non era proprio riuscito a intendere il significato, diligentemente sottolineate, erano circa una decina, tra cui, per rigore scientifico, ricorderò qui reina, commendate, sommamente, dilettarsi, bergolo, menare, fare pruova. A ciò ha aggiunto qualche osservazione intelligente, del genere che messer gli sembrava essere lo stesso che Monsieur, e che dunque per lui valeva signore. Il vero scoglio l’ha incontrato nel paragrafo iniziale, in cui Neifile annuncia il significato della novella, che non a caso è quello sintatticamente più complesso. E qui non posso fare a meno di considerare che anche la difficoltà incontrata dagli studenti nella lettura di Manzoni non riguarda tanto il lessico quanto la sintassi. Ma la difficoltà di comprensione sintattica è ben altra cosa dalla frattura linguistica, che è essenzialmente lessicale, riguarda infatti, oltre alle strutture linguistiche, anche le capacità logiche e l’abitudine al pensiero complesso, e qui entriamo in tutt’altro ordine di questioni E ancora, proseguendo nella riflessione che la lingua letteraria è settoriale, sbaglio, nel credere che mio cugino avrebbe avuto più problemi a intendere i tecnicismi e i dialettismi, le metafore e le citazioni poetiche del pur contemporaneo Gadda? (Ammetto per onestà di non averlo verificato).
3. Non c’è niente di scandaloso nelle traduzioni. Ma le traduzioni si fanno quanto esiste un potenziale bacino di lettori che leggerebbe alcune opere se riuscisse a intenderne la lingua. Da molto tempo le persone colte leggono i tragici greci in traduzione, scrive Santagata. Ma appunto, le persone colte. Quelle cioè che Boccaccio lo leggono in originale. Ora, quanti di quelli che non leggono Boccaccio perché non lo capiscono si danno in alternativa alla lettura di Sofocle tradotto? Purtroppo, allo stato attuale delle cose, Boccaccio non è in competizione con Sofocle, ma con Beautiful. Voglio dire che il vero gap non è linguistico, ma culturale. Perché, se esistesse un potenziale mercato di lettori di una letteratura italiana tradotta, oso immaginare che la case editrici non si sarebbero lasciate sfuggire l’occasione di riempire gli scaffali delle librerie, visto che alcuni tentativi ci sono già stati, e proprio per il Principe e il Decameron. Ma siamo sicuri che lo studente non legga Machiavelli a causa dell’oscurità del suo stile? Perché mai dovrebbe interrogarsi su un principe, ancorché tradotto, quando è opinione comune – basta fare un viaggio in treno per rendersene conto – che “tanto in politica sono tutti ladri”? Il “salto antropologico della società postindustriale”, di cui parla giustamente Santagata, ha “antichizzato” non soltanto la lingua, ma anche i contenuti pedagogici così come si incarnavano nella trasmissione, da maestro ad allievo, dei nuclei forti del sapere tradizionale. Insomma, credo sia un’impressione unanime che si è verificato uno scollamento di valori. La sfida vera alla quale è chiamata la scuola, a mio parere, è quella di ricostruire una serie di raccordi che operino attivamente, nella coscienza delle generazioni, tra ciò che in una moderna democrazia deve costituire il patrimonio culturale e le competenze critiche e tecniche di un cittadino a pieno titolo, e il sistema di riferimenti socioculturale che si evolve continuamente intorno.
E la tradizione letteraria – non dico la letteratura che fortunatamente continuerà, come sappiamo, a perpetuarsi, mutando anche geneticamente, in qualsiasi condizione storica – la tradizione letteraria è proprio in mezzo a questa possibile sconfitta o possibile rinascita. O si riesce a reinserirla nel circolo dei valori, o verrà spazzata via culturalmente molto prima che linguisticamente. Riconoscere lo slittamento del ruolo della letteratura nella formazione delle giovani generazioni e rifiutare nostalgie totalizzanti non vuol dire rinunciare né alle istanze di cui essa è portatrice attualmente, né al suo valore di patrimonio storico. E da questo punto di vista non condivido l’opinione di quanti auspicano una drastica riduzione dell’insegnamento della storia letteraria, proprio perché penso che questo raccordo debba avvenire su due livelli, quello della fruizione diretta dell’opera, ma anche quello dell’approccio storico al fenomeno letterario. Ma questa battaglia epocale è ancora tutta da fare.
Con ciò non voglio eludere l’oggettivo problema di rendere il più possibile fruibile il prodotto letterario, ma ritengo prioritaria la necessità, che è rilevata nell’articolo di Santagata, di predisporre edizioni con apparati snelli di immediato ausilio alla comprensione letterale del testo (per la poesia, che è discorso diverso, perché no, anche parafrasi a fronte), come d’altra parte mi sembra positivo l’incremento avuto dalle edizioni economiche dei classici, che ora si vendono nelle edicole. Credo che un Della Casa venduto a mille lire nelle stazioni abbia guadagnato lettori nonostante la difficoltà linguistica. E lo stesso discorso di può fare per altri strumenti nuovi di diffusione e promozione dell’insegnamento della letteratura italiana, la cui centralità attuale e futura Santagata, come operatore culturale, ha intuito perfettamente (se navigando in Internet lo studente si imbattesse nel Principe, e magari anche in qualcuno che glielo spiega?).
Insomma, nessuno scandalo quando un giorno si inizierà davvero a leggere i nostri classici tradotti in lingua corrente, perché è verissimo che i grandi libri resistono alla violenza della traduzione (e tuttavia viene in mento quello che scriveva Calvino, che si tratta di un’operazione tanto più drammatica quanto più sono vicine le lingua tra le quali viene fatta: già, perché poi non ci si potrebbe esimere dall’affrontare il problema delle buone e delle cattive traduzioni…) e anche perché, ragionando su un futuro non sappiamo quanto lontano, possiamo solo a fatica immaginare quali saranno gli sviluppi e le fortune della nostra lingua nell’integrazione con le lingue e le culture europee. E va da sé che l’imperativo principale dovrà essere quello di rendere accessibile alla maggioranza più ampia le grandi opere della nostra letteratura, e dei modi e delle forme si potrà sempre discutere. Ma fino a che nella coscienza dei parlanti italiano non sarà percepita con nettezza l’avvenuta frattura linguistica – e, pure nella fatica della lettura, posso assicurare che era fuor di dubbio, per Giacomo, il fatto di stare leggendo una pagina della sua propria lingua – fino a quel punto, credo che di siano i margini per lottare, diciamo così, per un innalzamento della “competenza tecnica” di tutti i lettori.