Pochi giorni fa la Corte costituzionale ha emesso una sentenza (42/2017) molto importante sull’uso della lingua italiana nell’insegnamento universitario, e ha così stabilito:
«La lingua italiana è […], nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall’art. 9 Cost. […] Il plurilinguismo della società contemporanea, l’uso d’una specifica lingua in determinati ambiti del sapere umano, la diffusione a livello globale d’una o più lingue sono tutti fenomeni che, ormai penetrati nella vita dell’ordinamento costituzionale, affiancano la lingua nazionale nei più diversi campi. Tali fenomeni, tuttavia, non debbono costringere quest’ultima in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù della loro emersione, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì – lungi dall’essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità – diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell’identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell’italiano come bene culturale in sé».
Si è arrivati a questa sentenza a seguito della decisione, presa nel 2012 dagli organi dirigenti del Politecnico di Milano, di attivare corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca esclusivamente in lingua inglese, eliminando l’italiano dall’offerta formativa. Un gruppo di docenti si è opposto, in nome della centralità dell’italiano come lingua nazionale e della libertà di insegnamento, e si è andati avanti per cinque anni fra appelli e ricorsi.
Ora la Corte fa finalmente chiarezza su alcuni punti che non dovrebbero più essere messi in discussione, con una sentenza giusta ed equilibrata, perché contempera le esigenze di internazionalizzazione delle Università con i principi della nostra Costituzione. Incoraggia, infatti, l’erogazione di insegnamenti in lingua straniera, laddove sussistano vere motivazioni scientifiche e didattiche, purché ciò non soppianti la centralità della lingua nazionale.
L’Avvocatura dello Stato, in questa contesa, si era espressa a favore dell’eliminazione dell’italiano, sostenendo che ciò avrebbe accresciuto le capacità competitive dei laureati. Una posizione indegna, perché venuta da quello stesso Stato che non sa fare in modo che gli studenti, dalla scuola primaria alla maturità, acquisiscano conoscenze linguistiche adeguate. È la solita ipocrisia italiana per cui, da un lato, non si forniscono alla scuola gli strumenti adeguati perché possa assolvere al proprio compito di insegnare bene le lingue straniere, dall’altro si pensa di cavarsela mostrandosi “internazionali” nel dar via libera a corsi di laurea solo in inglese.
E siccome c’è sempre qualcuno più realista del re, ecco che, tempo fa, la preside di un liceo pubblico milanese ha annunciato alla stampa di aver iniziato l’iter per passare all’insegnamento in inglese in tutte le materie. E così avremo, con gioia, insegnanti italiani che insegnano a studenti italiani di quattordici anni la geografia delle nostre regioni in inglese. Quanti di quei quattordicenni riusciranno a rimanere seri e a non scoppiare a ridere durante l’ora di lezione?
Ma si potrebbe sostenere che sia giusto insegnare in inglese le materie scientifiche, perché è l’inglese, ormai, la lingua della scienza. È una posizione, a mio avviso, sbagliata: il lessico tecnico-scientifico è parte integrante del patrimonio linguistico di un popolo e rinunciare completamente a usarlo nell’insegnamento porterebbe a un impoverimento culturale incalcolabile. Chi abbia una vaga idea degli sforzi di traduzione dal latino e delle battaglie fatte nel Cinquecento per dotare l’italiano di un lessico tecnico e scientifico, o abbia semplicemente letto, non dico gli Elementi di Euclide tradotti da Tartaglia nel 1543, ma almeno un po’ di Galileo, non può non capire cosa ci sia in gioco.
O vogliamo arrivare ad avere ingegneri civili che vanno in cantiere e non sanno come si dice “cemento armato”? Non si tratta di un exemplum fictum: quando studiavo a Zurigo, vedevo molti ticinesi, studenti di ingegneria al Politecnico federale, che dicevano “cemento acciaioso”, perché seguivano le lezioni in tedesco e non sapevano come tradurre in italiano Stahlbeton.
Sostenere la centralità della formazione in lingua italiana non indica affatto una chiusura nei confronti delle lingue straniere: al contrario, è in sintonia con la promozione della conoscenza e dell’uso non di una sola, ma di più lingue straniere. Perché l’appiattimento sull’inglese ha relegato ai margini anche le altre lingue di cultura europee.
Nella mia vita accademica mi è capitato di sentire conferenze, di ambito umanistico, rivolte a un pubblico interamente italiano, tenute in inglese da oratori francesi: non è mai stato un bello spettacolo. E una volta sono dovuta scappare via tappandomi le orecchie, tanto quell’inglese era orribile e inascoltabile.
Quale follia ha obnubilato la mente dei docenti universitari italiani al punto di far credere loro che ciò sia una cosa normale? Si tratta di un’assurdità che dobbiamo smettere di promuovere. Bisogna invece, come docenti, tornare a pretendere che un pubblico universitario di ambito umanistico sia in grado di utilizzare anche lingue come il francese, cosa normale fino ad alcuni decenni fa.
L’argomento che ormai il mondo parla inglese è un argomento debole, perché è subalterno all’ideologia della globalizzazione. Vale a provare che tutti dobbiamo conoscerlo ed essere in grado di usarlo nelle sedi opportune, ma non vale affatto come argomento per sostenere che debbano essere tolte di mezzo le altre grandi lingue, men che mai la lingua madre. E bisogna essere fermi nel chiarire che non si tratta di una declinazione del nazionalismo, perché il concetto guida è anzi quello della tutela della “biodiversità” linguistica.
Il fatto che si sia dovuti arrivare alla Corte costituzionale per stabilire un principio come la centralità formativa della lingua nazionale, che dovrebbe essere evidente a tutti, rivela il provincialismo di una classe dirigente, universitaria e politica, inadeguata a far fronte ai profondi mutamenti del nostro tempo.
E fa il paio con un altro disastro degli ultimi anni, ossia la soppressione dei Dipartimenti di italianistica, obbligati dalla legge Gelmini, per esigenze di bilancio, ad accorparsi ad altre discipline in maniera del tutto casuale, dettata dalla consistenza numerica dei docenti nelle varie Università. Nei Paesi civili, i Dipartimenti universitari dedicati alla lingua e alla letteratura nazionale godono di un’autonomia che riflette la centralità loro attribuita. Al tempo, fu approvato un ordine del giorno del Senato che andava in questa direzione, ma rimase lettera morta.
I docenti del Politecnico che in questi anni si sono opposti alla decisione di abolire l’italiano sono stati coraggiosi e hanno condotto una battaglia importante per tutto il sistema scolastico italiano. In questi giorni hanno lanciato un appello che, acquisendo le indicazioni della Corte costituzionale, invita la Presidenza della Repubblica e il Ministero dell’Istruzione ad avviare una nuova politica linguistica di difesa e promozione dell’italiano. Chi vuole firmare, può farlo qui.
[« L’Huffington Post», 6 marzo 2017]