[«ilSole24ore.it», 18 ottobre 2011]
L’intervento di Claudio Giunta a proposito dell’eccessivo numero di studenti, privi delle necessarie competenze di base, che affollano le facoltà umanistiche ha il merito di affrontare a voce alta e senza ipocrisia cose che tra colleghi docenti si dicono ormai da tempo sottovoce e badando a non farsi sentire troppo distintamente, che cioè l’insegnamento delle discipline umanistiche all’Università stia progressivamente sbiadendo, perché tutti noi arretriamo giorno dopo giorno di fronte all’abbassamento di livello degli studenti che laureiamo.
Il coraggio di Giunta, per il quale tutti noi dobbiamo essergli grati, è che dice queste cose senza tema di passare per reazionario, quale in effetti non è, perché se la sua presa di posizione fosse espressione di una concezione della cultura elitaria, intesa a escludere le masse popolari dalla fascia alta dell’istruzione – quella universitaria, appunto – sarebbe persino banale e arriverebbe buona ultima dopo tutte le deprecationes del presente alle quali da anni assistiamo ormai quasi quotidianamente. Invece, il punto di vista di Giunta è quello di chi crede sinceramente al ruolo imprescindibile dell’istruzione pubblica nella formazione del cittadino (basta leggere, per convincersene, il bel saggio L’assedio del presente, da lui pubblicato pochi anni fa e a mio avviso non abbastanza considerato da chi discute di questi temi) e non si rassegna ad accettare che la cultura, per poter, com’è giusto, essere di tutti, debba necessariamente scolorirsi e diventare sottocultura pop. È un equilibrio difficile da mantenere per chi tenta di svolgere il ruolo di intellettuale in Italia, di esercitare cioè una coscienza critica sul proprio lavoro di studioso e di docente, perché ci troviamo stretti tra ministri i quali alla buvette di Montecitorio dichiarano che con la cultura non si mangia e invitano a farsi un panino con la Divina Commedia, da un lato, e dall’altro la comprensibile reazione di chi invece propugna la diffusione a ogni livello e in ogni forma del sapere umanistico, pensando che quel poco che arriverà a destinazione, per quanto liofilizzato, sarà sempre meglio di niente.
La responsabilità degli intellettuali di sinistra, in questa deriva che sembra inarrestabile, è stata enorme.
Hanno vergato – molti di loro in buona fede – pagine e pagine sulla necessità di ibridare la propria materia e appropriarsi dei codici linguistici dei giovani per poter dialogare con loro sullo stesso piano. Il risultato è che ormai si stanno perdendo la connotazione e il rigore disciplinari persino nelle tesi di laurea, con i relatori costretti a seguire elaborati più o meno improbabili, purché cadano sotto la dizione genericissima di ‘letteratura’, ‘filosofia’, ‘arte’.
Questo cosa significa, che avevano ragione i conservatori, i quali di fronte alle spallate del ’68 si ergevano a baluardo dello status quo e quanti, oggi più che mai, dalle televisioni e dai giornali, citano il Sessantotto solo per attribuirgli la colpa del degrado attuale della società? No, ed è proprio questo il punto. Le istanze portate avanti in quegli anni erano sacrosante e hanno costituito un fronte formidabile nella battaglia contro gli autoritarismi e per l’abbattimento delle barriere sociali.
Quel che è avvenuto, a mio parere, è che dopo, come spesso accade nelle rivoluzioni, chi doveva elaborare nuove forme nella trasmissione del sapere e trovare nuove motivazioni al lavoro intellettuale non è stato capace di farlo. Mi riferisco a quanti, nel campo dell’intellettualità e della dirigenza politica hanno avuto il compito di tradurre in leggi, in statuti e in pratica universitaria le grandi spinte egualitarie ed emancipatrici dei movimenti; volendo restringere il ragionamento a tempi relativamente recenti, a quanti hanno pensato e attuato la riforma dell’Università e della scuola media negli anni Novanta. Che la loro azione sia stata improntata – a distanza di più vent’anni – dai principi del Sessantotto, al quale, chi più chi meno e chi con molti distinguo, hanno quasi tutti partecipato, è tutto da dimostrare. La mia opinione è piuttosto che non abbiano resistito alle pressioni di ciò che è venuto successivamente, ossia la perdita di prestigio della cultura umanistica di fronte alle rivoluzioni tecnologiche e l’incalzare di una cultura pop nella quale tutto veniva amalgamato indistintamente, da Dante a Socrate a Picasso. A questo duplice fronte gli intellettuali progressisti hanno reagito, per la gran parte, diventando più realisti del re, vale a dire immergendosi sacrificalmente nel flusso di superficialità della cultura massificata. Così ci si è convinti che il rilancio della cultura umanistica potesse avvenire svecchiando il medium attraverso il quale veniva trasmessa, ossia trasferendo le biblioteche e i corsi di laurea sulle piattaforme informatiche, o tentando di traghettare il salvabile e ipotizzando di tradurre, a beneficio dei giovani lettori, poeti e scrittori della nostra tradizione. Intendiamoci, questo l’hanno fatto i migliori; gli altri si sono limitati a intervenire in programmi televisivi portando il punto di vista del ‘filosofo’ ed esprimendo dotti pareri su Seneca e il dentifricio o qualunche altro argomento che venisse loro richiesto dall’intervistatore di turno, o a laureare honoris causa cantanti e anchormen televisivi.
Altro elemento importante nella riflessione di Giunta è la questione delle risorse. E anche su questo bisogna aprire una severa riflessione. Abbiamo imparato dalla crisi globale che uno Stato non può foraggiare tutto indistintamente e che occorre fare delle scelte. Smettiamola di pensare che sia di per sé positivo mantenere in piedi festival cinematografici, premi letterari, kermesse culturali in cui sempre più spesso l’intellettuale di turno interviene una sera in veste di scrittore incensato da critici amici suoi e la sera dopo in veste di critico incensante gli amici suoi scrittori. E bisognerà cominciare a dirlo, prima o poi, che il consumismo culturale ha molto più a che fare con il consumismo che con la cultura. Bisogna investire in quello che è strategico, ed è strategica la scuola pubblica, che deve essere difficile e severa, e deve avere le risorse per seguire più da vicino chi avanza lentamente (nei casi più disperati anche in rapporto di uno a uno, se non c’è altra via, come ha mostrato di recente un bellissimo servizio di Riccardo Iacona a Presa diretta dedicato alla scolarizzazione dei figli del popolo) e non perdere per strada nessuno studente, dalle elementari alla maturità. È in questo percorso che si deve formare la cultura e il senso critico del cittadino, e qui le discipline umanistiche svolgono un compito insostituibile. Le facoltà universitarie, invece, devono essere professionalizzanti. A Lettere, non diversamente che altrove, si deve imparare un mestiere (che sia quello dell’insegnante di scuola media, di critico, di storico, di intellettuale), cosa che prevede la conoscenza precise nozioni e il possesso di un bagaglio tecnico, ed è giusto che a svolgere questo mestiere, di vitale importanza per la nazione, vadano soltanto quanti ne sono effettivamente capaci. In questa prospettiva, l’introduzione di esami di ammissione che verifichino l’esistenza di necessarie competenze di base non confligge affatto con il diritto fondamentale del cittadino all’istruzione sancito dalla nostra Costituzione.
Chiudo facendo un appello a quanti, della generazione mia e di Giunta, insegnano nell’Università le materie umanistiche. La nostra responsabilità è tanto maggiore in quanto siamo pochi, noi stessi dei sopravvissuti alla falce del draconiano turnover, della fuga dei cervelli all’estero e del plurilustre precariato. Prendiamo posizione, abbiamo il coraggio di chiudere con le ubriacature del passato, di dire a gran voce che è ora di finirla di inseguire i gusti degli studenti, di proporre corsi di letteratura italiana che inanellano uno dietro l’altro la scrittrice premio Strega, lo scrittore premio Campiello, e via così col cursus awardorum, sperando di farci tirare la volata dal battage pubblicitario dei mezzi di comunicazione. Che non significa, attenzione, proporre corsi iperspecialistici su argomenti di minimo respiro, bensì avere il coraggio di insegnare agli studenti quello che, in coscienza, pensiamo possa servire, non piacere, loro.
Perché se una cultura democratica e realmente progressiva può ancora crescere in questo paese, passa proprio da qui, dal riconoscimento che molto si è sbagliato e da un cambio di rotta che ci porti a ripensare il ruolo dell’intellettuale ai tempi del web 2.0. La via è stretta, ma non abbiamo altra scelta che percorrerla, pena l’evaporazione definitiva del sapere umanistico, quand’anche le nostre aule si dovessero riempire perfino sugli strapuntini.